Privilegio e studio: parliamo di disuguaglianze

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Di Giorgia Bonamoneta

La scorsa settimana ho seguito con interesse un webinar sulle professioni per il futuro. Posso dire, fin da subito, di non aver sprecato l’ora di tempo che vi ho dedicato. Non perché ci fossero informazioni utili, ma perché, come faccio troppo spesso, ho finito per arrabbiarmi e ragionare sulla narrazione del privilegio che avevo appena ascoltato. Quindi respiro e vi spiego cosa non va nel discorso “fai tanta esperienza, conta solo questo sul curriculum” e “se ti impegni ce la fai”.

Un passaggio mi ha particolarmente triggerato (in psicologia trauma), ovvero il discorso sulle nuove capacità che i giovani devono avere: non per forza molto specializzate, ma di ampio respiro; più esperienze pratiche che teoriche; senza laurea specializzata, meglio i master o due-tre esperienze di lavoro in un anno. Fin qui potrebbe anche funzionare come discorso, più o meno, ma per chi?

Privilegio mal celato: studenti di serie A e di serie B

Questa riunione rispondeva a un tipo di studente e uno soltanto, ovvero quello che ha alle spalle una famiglia che riesce a spesare completamente il percorso di studi. Siamo tutti contenti per questi giovani che hanno l’opportunità, il tempo e i soldi per poter fare una serie di esperienze all’estero tra stage, tirocini, corsi di approfondimento, tutoraggi per acquisire skills ed esperienze extra. Ma, mio caro webinar, quello è un privilegio di tempo ed economico che non tutti hanno.

Chi rimane fuori da questa narrazione è lo studente senza privilegi (cit. povero) quello che deve lavorare per pagarsi lo studio, quello che deve lavorare perché non ha alle spalle una famiglia che riesce a pagargli il percorso (o la vita) o chi non ha proprio una famiglia. Quindi, ricapitoliamo e riassumiamo il webinar: è il solito discorso per privilegiati, fatto da privilegiati. Le persone che sono intervenute hanno limpidamente ammesso di non avere la laurea, quindi di non aver fatto un percorso di studi, eppure hanno speso molte parole su perché sia giusto studiare e lavora allo stesso tempo; su cambiare due-tre lavori in un anno per fare esperienze diverse. Tanto lo sappiamo tutti che al Mc Donald’s e da Tiger si acquisiscono skills supreme o forse questi signori pensano che tutti gli studenti non abbiano bisogno di farsi un curriculum perché papà ha conoscenze in qualche start up della Milano bene?

Fermi tutti. Qui non si sta attaccando il giovane con privilegi acquisiti alla nascita, che colpa ne avrebbe? No, qui è la narrazione superficiale, che appiattisce il dibattito, sotto accusa. Così come il “se vuoi puoi” e le altre frasi da cioccolatini che il figlio dell’operaio deve ascoltare come consigli definiti utili da chi quei cioccolatini li produce.

Privilegio. Sì? Batti il cinque

La polemica innalzatasi intorno al classismo e lo snobismo delle storie di Imen Jane e Francesca Mapelli è la sana rabbia di chi subisce discriminazioni economiche ogni giorno. Se vi siete persi la vicenda, stiamo parlando delle due giovani che hanno battuto il cinque e si sono fatte una risata su questa frase (di Mapelli):

Qui (Francesca Mapelli) mentre racconta (fa la spia? Ndr.) al proprietario del lido come ci sia rimasta male oggi quando una commessa non le ha saputo raccontare la storia del negozio. La ragazza ha risposto dicendo di non essere pagata abbastanza per informarsi. A quel punto (Mapelli) le ha detto che se si fosse informata abbastanza avrebbe potuto avere l’occasione di essere pagata tre volte tanto come guida turistica. (dalle storie Instagram di Imen Jane)

Ci serviva lei per farci arrabbiare, serviva lei e il suo atteggiamento superiore verso i palermitani per capire che il sistema è marcio?

La morte degli studenti, tra meritocrazia e burnout

Ci lamentiamo, ci indigniamo e intanto chi non riesce, chi teme di deludere, chi è stanco, chi è depresso muore. Il mio primo anno di università sono arrivata tardi tutti i giorni. Ritardi su ritardi per colpa del treno. Ricordo di aver imprecato a ogni tratta Nettuno-Roma e Roma-Nettuno, mentre i miei compagni di corso scendevano da casa a piazza Bologna ed erano già arrivati, freschi come rose, mentre io puzzano di bagni chimici e sudore di estranei. Ho iniziato ad arrabbiarmi con chi quei ritardi li causava. Dicevo: “Perché vi ammazzate proprio sulla mia tratta di treno?”. Poi ho capito il disagio, ho compreso che era la forma estrema di quello che vivevo io tutti i giorni. I miei disagi erano i loro, ma per una qualche fortuna io in quelle mattine non mi ero ancora buttata sotto al treno.

Ci sono momenti durante il percorso universitario nel quale lo studente non può far altro che soccombere. Non è neanche colpa sua, non può farci nulla se i professori mettono appelli improbabili, orari impossibili per i pendolari e libri introvabili o costosi. Si piange, si urla, ci si sente frustrati. Questa è la scuola della vita, della strada. Se qualcosa l’università pubblica mi ha insegnato è che il mondo reale è difficile, la burocrazia è lenta e che le soddisfazioni personali non sono davvero grandi traguardi. Non c’è una fine del percorso nel quale il merito è riconosciuto (saltiamo il commento “eh ma io…” perché le eccezioni ci sono sempre), si viene solo gettati nella quotidianità e tante grazie per i soldi.

Il lavoro del futuro è dignità e riconoscimento

Lo studente non è un seme da coltivare e inserire nel mondo del lavoro, è solamente un cliente al quale è venduto un corso e spesso, fatemelo dire, non vale neanche il costo di un caffè. Quindi noi giovani dobbiamo studiare in ambienti avversi, pubblici, dove ci viene ricordato quotidianamente di essere dei poveri stolti se pensiamo di cambiare le nostre vite in quel modo.

Ricordo ancora il professor Giampiero Gramaglia (il mio relatore) dire il primo giorno di corso che con quella facoltà non avremo fatto i giornalisti, non serviva a nulla. E lo ringrazio così tanto per averlo detto, per avermi tolto il velo di ingenuità dagli occhi e allo stesso tempo mi adiro con lui per avermi mostrato quale sarebbe dovuta essere l’alternativa: un corso da 20 mila euro per essere davvero preparati al mondo del giornalismo. Ventimila euro, perché qualcuno ha deciso che chi ha 20 mila euro può fare il lavoro che vuole e chi non li ha è destinato a farsi scuola e strada da solo.

La verità è che sotto un certo Isee siamo parcheggiati nella società fino a quando non diventiamo parte del meccanismo di sfruttamento, schiavi dei soldi, di quei 400 euro di rimborso spese che le aziende hanno deciso essere il giusto contributo per 8 ore di lavoro al giorno tutti i giorni, senza pausa. Non dico che non ci siano vie alternative, botte di fortuna o qualsiasi esperienza tu voglia raccontarmi (sono sinceramente felice per te, davvero), ma la realtà per centinaia di migliaia di ragazzi è quella che vi sto raccontando. Ma tanto siamo tutti giovani scansafatiche che non hanno voglia di lavorare, giusto?

Consigli davvero utili su come muoversi durante e dopo la laurea

Un modo diverso di narrare i lavori del futuro, caro webinar, esiste. Accanto ai consigli “vai all’estero” e “fai esperienza” si poteva fare un bel excursus su tutte le iniziative italiane ed europee che supportano lo studio e il post-laurea. Oltre a consigliarvi di specializzarvi e prender un master, ecco alcuni portali da consultare per fare esperienze in Italia e all’estero (con retribuzione o rimborso spese):

  • Erasmus+
  • Porta futuro Lazio
  • Dipartimento per le Politiche giovanili
  • Servizio civile universale
  • Scambi europei
  • CISV Italy

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Articolo di Giorgia Bonamoneta.