Dopo aver diretto “The Nest” (2020), Roberto De Feo torna alla regia con un altro horror intitolato “A Classic Horror Story”. Tuttavia, il regista stavolta viene affiancato da Paolo Strippoli che, con “A Classic Horror Story“, firma il suo primo lungometraggio. Il cast è composto da Matilda Lutz, Francesco Russo, Peppino Mazzotta, Yulia Sobol, Will Merrick, Alida Baldari Calabria e Cristina Donadio. L’opera, uscita il 14 luglio su Netflix e prodotta da Colorado Film, è stata girata in Puglia e a Roma.
La trama del film “A Classic Horror Story”
Cinque persone viaggiano a bordo di un camper per raggiungere una destinazione comune. Cala la notte e per evitare la carcassa di un animale si schiantano contro un albero. Quando si riprendono, si ritrovano in mezzo al nulla. La strada che stavano percorrendo è scomparsa; quello che c’è ora è solo un bosco fitto e invalicabile e una casa di legno in mezzo ad una radura. Scopriranno ben presto che è la dimora di un culto terrificante. Riusciranno le vittime a uscire dall’incubo in cui sono rinchiusi?
Un horror inedito in una foresta di ispirazioni
Roberto De Feo e Paolo Strippoli riescono a confezionare un horror che sfortunatamente vediamo di rado in Italia. Potremmo definire “A Classic Horror Story” un horror inedito in una foresta di ispirazioni. Pensiamo all’omaggio fatto a “Shining” (1980): la famiglia Torrance viaggia in auto verso l’Overlook Hotel che si trova sperduto tra le montagne del Colorado. In quel frangente Stanley Kubrick, quando non inquadra i visi dei Torrance, gira con un campo lungo in modo tale che gli spettatori capiscano che la famiglia si ritroverà sperduta e nessuno potrà salvarli.
Ad aumentare la preoccupazione nei confronti della famiglia Torrance ci pensa la musica di Wendy Carlos e Rachel Elkind, che fa capire agli spettatori che qualcosa di oscuro sta per accadere. La stessa cosa fanno Roberto De Feo e Paolo Strippoli che, con la musica di Massimiliano Mechelli, inquadrano con un campo lungo il camper in viaggio mostrandoci il vuoto che circonda i protagonisti. Questa prima parte del film, accostabile ad un road movie, porterà i protagonisti ad un vero e proprio incubo da cui faranno fatica a sfuggire.
Motivo per cui, De Feo e Strippoli omaggiano anche “Non aprite quella porta” e “La Maschera di cera“. Oltre al fatto che entrambe le pellicole raccontano di un viaggio che non raggiunge la meta e i protagonisti si ritrovano in un mero incubo, il richiamo è presente anche in altri dettagli. Può essere accostabile a “Non aprite quella porta” perché la casa dei Sawyer è posizionata in una zona sperduta e, come la famiglia Sawyer compie degli omicidi cruenti, anche i tre personaggi mascherati in “A Classic Horror Story” fanno dei riti terrificanti.
Il film di Strippoli e De Feo omaggia invece “La maschera di cera” mediante l’aspetto meta-cinematografico/finzionale. Questo perché in entrambe le pellicole, i villain tendono a “spettacolarizzare” non solo gli omicidi, ma anche il luogo che circonda i passanti. Un altro omaggio dei registi è quello rivolto a “Midsommar – Il villaggio dei dannati” (di Ary Aster, 2019). Oltre alla scena del banchetto di “A Classic Horror Story” che richiama quella di “Midsommar“, entrambi gli horror fanno utilizzo dell’aspetto iconografico e simbolico. Pertanto è giusto considerare “A Classic Horror Story” come un mero slasher italiano.
In tutto ciò, i due registi riescono a fare comunque di “A Classic Horror Story” un film inedito che non passa inosservato. Pensiamo alle canzoni anacronistiche che aumentano la personalità del film come “La Casa” di Sergio Endrigo o “Il Cielo In Una Stanza” di Gino Paoli. Oltre a questo, il senso del titolo lo inquadriamo a pieno proprio alla fine visto che ha un significato polivalente. Difatti, rimanete incollati allo schermo durante i titoli di coda. Infine, non si vede tutti i giorni un horror che denuncia non solo l’industria cinematografica italiana, ma anche la ‘Ndrangheta.
Cosa non funziona in “A Classic Horror Story”?
Sebbene l’opera dei due registi sia alquanto interessante e buona, non è comunque esente dai difetti. La nota più dolente concerne l’aspetto sonoro, visto che la voce di tutti i personaggi è inutilmente ed eccessivamente bassa, fattore che costringe gli spettatori ad alzare il volume o a mettere i sottotitoli. Questo porta all’altra nota stonata che è la recitazione. Nessuno infatti eccelle e non tutti sono pienamente nella parte. Ad esempio, Francesco Russo è troppo sopra le righe e, inoltre, ha un dialetto calabrese troppo stretto da non far recepire molto ciò che dice agli ascoltatori. Ciò porta le scene a non essere del tutto verosimili visto che vien difficile pensare che gli altri riescano a capire tutte le frasi espresse verbalmente dal personaggio.
La vera protagonista Matilda Lutz, invece, dimostra di saper comunicare con il linguaggio del corpo, ma lascia a desiderare quando deve comunicare verbalmente. Questo perché la sua voce risulta troppo impostata e finta, cosa che non risulta quando piange ed è preoccupata. L’attrice però sta avendo sempre più ruoli nel panorama cinematografico e televisivo (pensiamo al film “Revenge” e alla serie tv “They were ten“), di conseguenza con l’esperienza il difetto potrebbe scomparire definitivamente. Nel complesso, è un’opera che merita di essere guardata per respirare aria nuova nel cinema italiano e perché lascia qualcosa agli spettatori.
Jacky Debach
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