Una riflessione, che mette insieme molte voci mediche e politiche, sul concetto di decrescita e salute per capire che il benessere si costruisce e non si compra, non si vende, non si mercifica.

La salute si costruisce insieme: è un concetto legato a doppio filo al benessere sociale e quindi di solidifica assieme al miglioramento della società. La salute collettiva è una responsabilità collettiva. Questa va oltre il Welfare (che ne è però un tassello cruciale) ma si orienta nella costruzione di simboli e forme che permettano la libera espressione collettiva. Decrescita – Voci e proposte per un mutamento di civiltà ha prodotto un’interessante riflessione sul concetto di decrescita. Da qui cerchiamo di trovare spunti di riflessione che ci emancipino come società dalla fretta di produrre, tralasciando il tempo di essere.

Hai mai visto una Salute che si costruisce e non si compra?

L’amministratore delegato di una nota casa farmaceutica, Henry Gadsen della Merck, più di trent’anni fa, dichiarò alla rivista Fortune quanto segue.

“Il nostro sogno è produrre medicine per le persone sane. Questo ci permetterebbe di vendere a chiunque”

Ora, osserviamo l’andamento della spesa per farmaci nei paesi Ocse. Questa è aumentata di 17 volte dal 1980 ad oggi. Quindi possiamo senz’altro confermare che il paradossale auspicio, condiviso dalle major del medicinale, è diventato realtà. Come è successo? Lo hanno bene spiegato molti medici, epidemiologici, attivisti dei movimenti di difesa della salute e dei diritti del malato chiamati dal Movimento per la Decrescita Felice ad un convegno organizzato presso la Camera dei Deputati, presenti esponenti del Pd, del Movimento 5 stelle e di Sel.

Conosci il Il Disease Mongering? Dovresti, fidati

Molti di essi torneranno a riunirsi a fine novembre (il 29 e 30 alla sala del Piccolo Regio, in Piazza Castello a Torino) al secondo Congresso nazionale di Slow Medicine. Questi è un movimento che si batte per una medicina “sobria, rispettosa e giusta”. Antonio Bonaldi, direttore di una azienda ospedaliera di Monza e presidente di Slow Medicine, si esprime al riguardo. Ecco le tre le mosse “vincenti” che hanno tramutato una giusta domanda di salute in un florido business che solo in Italia vale 25 miliardi di euro:

  • l’individuazione precoce di malattie che altrimenti sarebbero rimaste silenti, attraverso la proliferazione della diagnostica (da non confondersi con le pratiche preventive appropriate);
  • la creazione a tavolino di nuove patologie;
  • il costante abbassamento delle soglie di normalità di molti parametri biologici (ipertensione, glicemia, colesterolo, ecc.).

Questo complesso di azioni di marketing e di protocollazione terapeutica viene ha un nome: disease mongering.

Esso è la creazione e mercificazione della malattia e non è una novità. Già Ivan Illich, uno dei pensatori che hanno più ispirato gli attuali gruppi che contestano consumismo, sprechi e crescita economica fine a se stessa. Lilich, in una delle sue principali opere, “Nemesi Medica, L’espropriazione della salute, La paradossale nocività di un sistema medico che non conosce limiti” ne parla. Essa, scritta nel 1976 (riedito qualche anno fa da Boroli), metteva in guardia dal cattivo uso delle conquiste scientifiche. Lilich analizzava il “potere malefico” di quella che sarebbe diventata una medicina ipertecnologizzata e iperspecializzata. Medicina che tende a “medicalizzare la vita” e inserire le persone in percorsi di “terapia totale”. Si parla delle diagnosi prenatali e prelievi post mortem, dalle disfunzioni erettili alla menopausa, dalla tristezza all’obesità…

Qualche voce autorevole:

Giovanni Peronato, della associazione “No grazie, pago io” e Giulia Mannella del “Tribunale dei diritti dell’ammalato” e Paolo Roberti di Sarsina dell’“Associazione per la medicina centrata sulla persona” e altri intervenuti al convegno del Movimento per la decrescita, hanno prodotto interessanti dichicrazionie.

Essi hanno denunciato i comportamenti medici debilitanti la volontà del paziente e quindi deresponsabilizzanti. Tutto il contrario della tanto decantata “libera scelta informata”, difficile da realizzare in un sistema di poteri molto asimmetrico. L’obiettivo della consapevole partecipazione del paziente alle scelte terapeutiche diventa una chimera. Lo divent se consideriamo anche il contesto culturale delle “società opulente” in cui è radicata

“l’idea che la salute sia qualche cosa che si compra e non che si fa”

citando ancora Lilich. In altre parole, è passata la convinzione che il benessere psicofisico delle persone dipenda dalla disponibilità di denaro spendibile sui mercati della “health wellbeing”. Quindi spendibile in cliniche, farmaci, integratori alimentari, centri fitness, ecc. ecc. più che dalla salubrità degli abituali ambienti di vita e di lavoro. Si nega un approccio sociale alla medicina, individualizzandolo. Ciò che il sistema medico-sanitario istituzionalizzato tende infatti ad occultare sono proprio i determinanti non biologici delle malattie, le variabili sociali.

Un riflessione sul classismo nel diritto alla salute

La rivista scientifica Jama ha pubblicato un articolo – Stephen M: bridging the divide between health and health care, 2013 – che afferma:

“La medicina si comporta come se tutte le malattie avessero una causa biologica e fossero trattabili con farmaci e chirurgia. (…) I servizi sanitari spiegano solo il 10 per cento della mortalità prevenibile. Il rimanente 90 per cento è associata a stili di vita, fattori ambientali, sociali e culturali, predisposizione genetica e … caso”.

Si inserisce anche Chiara Bodini, medico specialista delle malattie infettive del centro di Salute Internazionale dell’Università di Bologna e del “Movimento per la salute dei popoli”. Essa dice che bisognerebbe parlare di “determinazione della salute da parte degli interessi sociali costituiti”. E’ accertato in modo incontrovertibile da tutti gli studi sul campo che i fattori ambientali e sociali influiscono in modo preponderante sulla qualità della salute. I tassi stessi di mortalità sono correlati ai redditi.

Le capacità di cura e di guarigione di una persona dipendono in larga misura dalla sua condizione di vita e dai supporti familiari e comunitari. Fulvio Aurora diMedicina Democratica ha ricordato quanto incidano ancora le “malattie professionali” . Ribadisce anche quanto l’esposizione a fattori di rischio sia profondamente ingiusta e classista provocando “diseguaglianze di salute”.

Giovanni Ghirga, pediatra dell’Isde (Medici per l’ambiente), ha ancora una volta richiamato l’attenzione sulla vera e propria catastrofe ambientale lenta provocata dal peggioramento dell’inquinamento atmosferico dovuto alle particelle ultrasottili inalabili. Non serve andare in Cina per trovare la brown cloud che provoca sempre più frequenti e gravi affezioni respiratorie in particolare nei bambini; l’aria che si respira nella Pianura Padana è la peggiore d’Europa. Proprio in questi giorni la Società Italiana di Medicina Interna ha calcolato che se si riuscisse a dimezzare le emissioni gassose inquinanti vi sarebbero almeno sei mila morti attesi in meno all’anno e si registrerebbe un risparmio di 10 miliardi di euro di spese sanitarie.

La Salute si costruisce insieme, non si compra: depressione come malattia sociale

A tutto ciò si deve aggiungere la spettacolare esplosione dei disagi e delle sofferenze psichiche. Una vera pandemia. Conseguenza inevitabile di una società caratterizzata dall’insicurezza e dalla precarietà che producono ansie, stress da competitività, angosce esistenziali, perdita di autostima, distruzione delle normali relazioni umane.Dicono gli epidemiologi Wilkinson e Picket in La misura dell’anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici:

“Per avere una mente sana bisogna apprezzare e accettare se stessi”.

Depressioni e patologie neuropsichiatriche sono le nuove malattie sociali della contemporaneità. Robert Whitaker, autore di Indagine su una epidemia, calcola che negli Stati uniti il 46 per cento della popolazione soffra di disturbi psichici e spende 25 miliardi di dollari all’anno per antidepressivi, antipsicotici, sonniferi vari. La cifra si moltiplica per quattro se includiamo anche le cure mediche dovute ai disturbi mentali. La promessa della farmacologia è quella di raggiungere uno stato di benessere artificiale alternando stimolanti (comprese le droghe) e sedativi (tranquillanti). la salute si costruisce e non si compra, non si mercifica, non si vende.

Medicalizzazione, farmacizzazione e psichiatrizzazione dei disagi e dei comportamenti fuori norma sono le uniche risposte che il sistema sanitario sembra saper fornire.

Come creare insieme una salute che si costruisce?

A meno che non si trovino le forze interiori, morali e civiche, per invertire la rotta considerando la promozione della salute non come una azione delegabile agli specialisti dell’industria farmaceutica e della cura medica standardizzata, ma come un obiettivo cui si fa carico la società nel suo insieme, riducendo l’esposizione degli individui ai fattori di rischio, migliorando le condizioni igieniche e le capacità nutrizionali della popolazione, aumentando il benessere percepito e le competenze delle persone e delle famiglie nel risolvere per proprio conto i bisogni di salute.

Sono questi, in fin dei conti, i fattori principali che hanno permesso di allungare l’aspettativa di vita, più degli stessi antibiotici, della chirurgia e delle raffinatissime tecniche rianimatorie – come ha documentato Pier Paolo Dal Monte, dell’“Associazione italiana per la bioetica chirurgica”.

“Una società è tanto più sana quanto meno deve ricorrere ai servizi sanitari”

ha fatto eco Eduardo Missoni, docente, dell’“Osservatorio italiano della salute globale”. In definitiva bisognerebbe pensare alla “salute come bene condiviso”, ha detto Roberto Beneduce dell’Associazione Frantz Fanon, non come una merce e quindi sottratto alle logiche del mercato. Al giovane medico Jean-Louis Aillon e a Maurizio Pallante, rispettivamente vice e presidente del Movimento per la Decrescita Felice, il merito di aver portato a domicilio dei parlamentari un argomento dirimente non tanto e solo per le casse pubbliche, in tempi di crisi fiscale dello stato, ma per la qualità dell’esistenza delle donne e degli uomini di questo paese.

Maria Paola Pizzonia, Autore presso Metropolitan Magazine