Nel corso degli ultimi due decenni, è aumentata la richiesta spasmodica di sicurezza da parte dei cittadini. Elementi considerati in precedenza come indice di semplice degrado o di inciviltà, ora vengono percepiti come fattori di insicurezza da parte degli abitanti di taluni quartieri o vie delle città italiane. Per questi motivi, oltre che sull’onda di campagne elettorali sempre più centrate sulla sicurezza e la sua percezione (e la sua strumentalizzazione in chiave propagandistica), le città italiane si sono riempite di telecamere.
I sistemi di videosorveglianza cittadini – a cui si affiancano quelli privati delle singole abitazioni o imprese – installati dai comuni per aumentare l’operatività delle proprie polizie locali, di recente hanno avuto un upgrade tecnologico. Alcuni comuni (Como, Udine e Torino) hanno infatti installato una nuova generazione di telecamere, in grado di utilizzare software di riconoscimento facciale.
Le telecamere che supportano il riconoscimento facciale utilizzano un software in grado di acquisire ed archiviare i dati biometrici di chiunque passi sotto le lenti. Colore degli occhi, forma del viso, grandezza del naso, distanza tra gli occhi, fisionomia del volto, modo di camminare. Tutte queste informazioni confluiscono poi in un archivio, dove dovranno essere confrontate da un algoritmo con altre immagini già presenti per poter procedere ad identificare compiutamente la singola persona. L’archivio quindi, è il secondo pilastro del sistema di sorveglianza, di cui le telecamere sono solo l’estensione visibile.
Gli algoritmi per il riconoscimento facciale vengono programmati, e non sono esenti da errori. In un articolo pubblicato a fine 2020 su Nature venne sottolineato come gli algoritmi del riconoscimento facciale trovassero maggiori difficoltà nel distinguere i volti di persone nere o di donne, rispetto a quelli di maschi bianchi. Conseguenza di questo “problemuccio” potrebbe essere lo scambio di persona durante un’indagine di polizia, che potrebbe portare ad un arresto od un fermo di una persona estranea ai fatti, a causa di un errore dell’algoritmo.
I dati biometrici sono classificati dal GDPR come dati altamente sensibili, in quanto rivelano informazioni importanti sul singolo individuo, e non possono essere oggetto di archiviazione indiscriminata senza consenso. Il Garante della Privacy ha infatti bloccato le funzioni di riconoscimento facciale delle telecamere installate nelle tre città di cui sopra proprio in virtù del fatto che la raccolta di questi dati non ha basi giuridiche per esistere.
Numerose associazioni in Italia e in Tutta Europa hanno chiesto con forza la messa al bando totale della tecnologia del riconoscimento facciale, in quanto «La nostra privacy è una condizione che ci permette di godere delle nostre libertà negli spazi pubblici e nella vita pubblica: è quella che ci dà la possibilità di unirci, far sentire le nostre voci e vivere come vogliamo.». La petizione lanciata da queste associazioni (Reclaim Your Face), per convincere a firmare, effettua anche delle ricostruzioni di potenziali situazioni in cui si potrebbe incappare a causa della raccolta indiscriminata di dati biometrici effettuata dalle telecamere a riconoscimento facciale. Su tutte, una sembra uscita dritta da un episodio di Black Mirror: «La polizia dovrebbe inserirti in una lista di sospetti in base a come cammini?»
E se la ricostruzione potrebbe sembrare un’esagerazione, una volontaria iperbole per spaventare le persone che ne sanno poco sul tema e convincerle a firmare, è bene andare a leggere le delibere di giunta e le dichiarazioni degli assessori alla sicurezza delle città di Como e Udine per motivare l’installazione delle telecamere. Nella scheda tecnica del progetto di installazione di Como, esaminata da Wired grazie ad un FOIA, le telecamere sarebbero in grado di «effettuare riconoscimento facciale sui passanti, rilevamento automatico di bighellonaggio (“loitering”), oggetti abbandonati o rimossi e “tripwire” (ovvero lo sconfinamento all’interno di un’area proibita)». Inoltre, il sistema permetterebbe di generare degli alert delle “situazioni sospette” e di cercare i soggetti coinvolti all’interno di una blacklist.
Oppure, passando alla città di Udine, si può leggere nella documentazione tecnica del progetto che le telecamere, pur non potendo essere dotate di software di riconoscimento facciale, dovranno essere in grado di supportarlo qualora il comune ritenesse opportuno (e il Garante della Privacy lo autorizzasse) di effettuare un upgrade dell’apparecchiatura di sorveglianza.
Appare chiaro come il provvedimento del Garante sul sistema di telecamere installato a Como abbia fatto sentire il proprio effetto. Tuttavia, si continua a leggere, le telecamere, qualora venissero abilitate all’uso del riconoscimento facciale, se posizionate a circa 1,5 metri di altezza da terra (quindi in cestini, o vasi di piante, o altro arredo urbano) potranno riconoscere persone «anche con occlusioni parziali del viso, occhiali, sciarpe, cappellini, cambiamenti di espressione del viso, ombre, contrasti elevati e condizioni di luce estreme o scarse e sulle rotazioni moderate del volto». Si parla poi anche di persone “poco collaborative”, le quali indossando cappelli, occhiali o tenendo il volto basso potrebbero sfuggire alle telecamere che venissero posizionate ad un’altezza compresa tra i 4,5 e i 6 metri.
In un commento rilasciato al Post sull’installazione di questo sistema, l’assessore alla sicurezza del comune di Udine ha detto: «Perché dovrei preoccuparmi se una telecamera conosce il mio nome e cognome o se un agente della polizia di stato sa che sono passato a quell’ora e in quella via? Chi viola la legge deve preoccuparsi, gli altri no». Con buona pace della privacy di chiunque dovesse passare da quelle parti.
Come fatto notare da diversi attivisti e associazioni, un tale sistema di videosorveglianza è estremamente invasivo per la privacy delle persone, e il tutto sarebbe fatto in assenza pressoché totale di garanzie sulla stessa custodia di quei dati biometrici che verrebbero immagazzinati, nonché di valutazioni che giustifichino il reale bisogno di sistemi del genere. Si torna sempre alla percezione di insicurezza, giustificazione suprema di ogni misura e che però, proprio per la sua natura non potrà mai essere azzerata.
A dicembre 2021 è stata approvata dal Parlamento Italiano una moratoria sull’utilizzo delle tecnologie di riconoscimento facciale fino al 31 dicembre 2023, oppure fino all’approvazione di una legge che regolamenti la materia. Pur plaudendo all’iniziativa, le associazioni rimangono scettiche poiché la moratoria sarebbe addirittura un passo indietro rispetto al provvedimento del Garante della Privacy del 2020. Infatti, fanno notare come tutta la questione ruoti intorno all’art. 9, comma 12 del decreto 139/2021, in cui è contenuta la moratoria. L’articolo in questione, vero cavallo di Troia della sorveglianza basata sul riconoscimento facciale, permette che questa sia sempre possibile per la finalità di prevenzione dei reati. In concreto, quindi, qualsiasi ente locale o il Ministero dell’Interno (attraverso il sistema SARI, bloccato a suo tempo sempre dal Garante), potrebbe installare sistemi di videosorveglianza equipaggiati di software di riconoscimento facciale.
Gli attivisti di Private Network, The Good Lobby e delle altre decine di associazioni che si oppongono all’utilizzo delle telecamere con riconoscimento facciale ne chiedono il bando totale. Per loro, questo è l’unico modo per evitare pericoli per la libertà dei cittadini.