“Hai giocato questo gioco?” “si l’ho giocato”.
In teoria questo scambio di battute dovrebbe essere scorretto.
Grammaticalmente un gioco non può essere giocato come un libro può essere letto o un film visto. Ma (dalla mia totale ignoranza) credo che queste siano rimasuglie di un tempo in cui i giochi erano unicamente attività e non opere con un inizio, uno sviluppo e una fine.
Il termine giocare è molto interessante e complesso perchè si porta in spalla una serie di ingiustizie e pregiudizi. È difficile prendere sul serio un’arte quando anche solo nella lingua parlata viene trattata come il fratellino scemo.
Questa rubrica, che si pone l’obiettivo di analizzare temi e tecniche di opere video-ludiche, preferisce fregarsene e passare dal serio al faceto, giocare con il concetto di gioco spogliandolo dall’aura di infantilismo che lo avvolge senza però rinunciare alla sua unicità dinamica. Prendersi sul serio e non sul serio. Giocare come in inglese, dove play vuol dire anche recitare, suonare o in genere essere attivi in qualcosa. Sono invitati gli appassionati così come i detrattori le cui perplessità combatteremo con un lapidario e altezzoso “eppur si gioca”.
Three Fourths Home è un gioco in punta di piedi. Una di quelle opere chirurgicamente crudeli, che in silenzio abbassano la tua guardia, e con tre passi ti sono alle spalle per trafiggerti. Vediamo insieme in che modo la semplicità può essere profonda come un baratro.
Una libertà.
I videogiochi e la letteratura, per certi versi, sono molto simili.
È vero che i primi sono il media più ricco a livello di stimolazione del fruitore e di duttilità a seconda delle scelte dello stesso. È vero anche che sono un bombardamento sensoriale pronto a cogliere chi li approccia da molteplici direzioni.
In un videogioco troviamo meccaniche ludiche, design grafico, scultura (anche se poligonale), animazione, musica, recitazione, regia e una serie di altri elementi tutti messi al servizio di un quadro interattivo.
Al contrario, la letteratura vive unicamente di parole o, al massimo, della loro musicalità o delle pause che la punteggiatura suggerisce.
Eppure, incredibilmente, i due approcci artistici sono analoghi, anche siedono su troni molto distanti, nell’enorme spettro dei media.
In ogni forma d’arte, il fruitore è fondamentale. Egli è colui che regala senso all’opera, anche in zone dove l’autore non intendeva celarne.
Lo sguardo di un fruitore può essere (e si spera sempre sia) attento, informato e approfondito, ma la sua importanza, nel dialogo con l’artista tramite l’opera, è necessario perché l’opera possa esistere a livello di fenomeno culturale.
Questo vale per un quadro, per un film, per un libro, per un fumetto o altro.
La musica, in media, è l’arte che più si allontana da una rappresentazione fenomenica del mondo o dalla voglia di raccontare una storia che a quel mondo fenomenico fa riferimento (e se lo fa, di solito, usa le parole come intermediario). Ma allontanandoci dall’astrazione pura di sua maestà, due sono le arti che considero più attente alla figura del fruitore.
Per l’appunto, come già detto, videogiochi e letteratura.

Una volta, dei miei amici dibattevano su quale media, in ambito orrorifico, fosse il più efficace, per natura.
Il videogioco era molto quotato, ovviamente, perché rende il giocatore parte integrante del meccanismo d’orrore e sfrutta la sua immedesimazione per scanalargli i nervi.
Ma nella discussione, un parere altrettanto valido, anche se meno lampante, venne fuori.
La letteratura ha un’altro enorme potere. Perché la tua mente riempie tutti gli spazi vuoti. E se c’è descritto qualcosa di terribile, ogni persona dipingerà nella propria mente la versione più terrificante di quel qualcosa. Mostruosità o ombre personalizzate, che lasciano alla psiche tutto il lavoro di ‘rendering’ dell’orrore.
Sia nei videogiochi che nella letteratura, il fruitore ha un fondamentale ruolo non solo nel filtrare l’opera, ma nello scolpirla.
Tutti i media hanno delle componenti simili e tutti si dilettano nel lasciare lacune e nello spingere i fruitori a riempirle (e qui si vede anche la bravura dei vari artigiani o artisti, che dir si voglia). Il montaggio nel cinema o la closure nel fumetto sono altri esempi validi di questa disciplina creativa.
E queste qualità non sono sempre esemplificate al ‘meglio’ in ogni prodotto di ogni media. Ci sono film più ‘lacunosi’ di molti libri. Ma è interessante vedere come i linguaggi possano essere intrinsecamente più o meno costruiti per ‘porgere la mano’, ed è interessante (in quest’ottica) mettere a confronto videogiochi e letteratura.
Laddove uno riempie e dona la possibilità di navigare, l’altro svuota e invita a creare la mappa.
Entrambi sono linee guida per far in modo che chi ci si immerge possa modellarne i paesaggi.
Per poi perdercisi, in un secondo momento.
Verrebbe quasi da dire che, tra tutti, sono i media che regalano più libertà in assoluto.
Dopotutto, libertà è partecipazione.

Una costrizione.
Non so voi, ma io spesso e volentieri lavoro bene sotto pressione.
Anzi.
Lavoro MEGLIO sotto pressione.
Anche se sotto pressione non è il termine adatto. Voglio dire che molte più volte di quanto non si pensi, le costrizioni e le limitazioni sono delle scintille per l’ingegno.
Si fa di necessità, virtù.
Quando si pensa all’arte si pensa spesso al prodotto di un illuminato spirito libero, graziato dagli dei con una sensibilità fuori dal comune che le/gli consente di vedere oltre gli insopportabili limiti umani e vedere il mondo come un enorme flusso spirituale/sacro di meravigliose onde.
Spesso, invece, gli artisti sono dei poveri pazzi. Poveri pazzi talentuosi, magari.
Poveri pazzi che spesso sono ossessionati dai limiti, dalle regole e dalle limitazioni e che semplicemente hanno imparato a riconoscerli, scardinarli e/o usarli a proprio vantaggio.
Questo consente di avere una comprensione più profonda, ma non meno a fuoco delle dinamiche del mondo. O quantomeno della cultura. O quantomeno dell’arte alla quale hanno ‘prestato giuramento’.
Tra gli artisti, la nozione della ‘limitazione che genera idee’ è un concetto più che ben considerato.
E in un certo senso, la limitazione gioca un ruolo fondamentale nella costruzione della libertà del fruitore di cui parlavamo prima.

Non solo, una buona costrizione esperienziale e creativa può fare in modo che chi si approccia ad un’opera, sia obbligato a ragionare in modi diversi da quelli che è abituato ad usare.
In tal senso, un obbligo può portare in posti scomodi, sfidare preconcetti, metterti faccia a faccia con un’idea e chiederti di reagire, senza fuga. E da quella reazione può scaturire riflessione e quindi cambiamento.
Si spera in positivo.
Se lo sguardo del fruitore è attento, informato, approfondito.
Ma soprattutto coraggioso.
Alle volte, una affermazione senza mezzi termini, costringe ad immaginare delle sfumature.
Un disegno realistico non lascia alcuno spazio. Un disegno stilizzato ti consente di riempire i vuoti rappresentativi con quello che vuoi. Un quadro astratto, lascia il pensiero brado. E si può scegliere di domarlo o di correre con lui, ma la decisione è dello spettatore.
Ogni opera è mondo proprio e ogni uso delle limitazioni è diverso per autore e per fruitore.
Ma come il minimalismo insegna, alle volte bisogna andare al punto e se è chiaro il punto, il resto viene da solo.
Se ti metto alle strette, magari voglio farti capire una cosa.
O lasciarti immaginare quello che ti nego.
O entrambe le cose magari.
Quando una costrizione ha un fine stimolante, non è una costrizione.
Cavolo, questa può suonare male…
…mmm…
Diciamo che parliamo dal punto di vista creativo, non andate a rompere le scatole al prossimo.

Un rimorso.
Ho sempre trovato affascinante l’idea del tempo non lineare.
Se non la conoscete, ecco una spiegazione pessima fatta da un somaro:
Immaginate uno segmento tracciato su un foglio. Sappiamo tutti che una linea è un insieme di punti in fila, vero? Facciamo finta che il segmento sia il tempo e ogni punto equivale ad un momento.
Noi umani, con la nostra percezione semplicistica, viviamo nei punti e li percepiamo uno alla volta, uno dopo l’altro. Ma guardandoli esternamente, da lontano, noi vediamo un segmento. Ne vediamo ogni sua parte, contemporaneamente.
Meglio ancora.
In un fumetto vediamo tutte le vignette susseguirsi, possiamo leggerle in fila e simulare lo scorrere degli eventi, ma possiamo anche leggerle come preferiamo e saltare da una parte all’altra del tempo.
La pagina del fumetto, ci appare come momenti distribuiti nello spazio e di simultanea esistenza… siamo solo noi fruitori a decidere di dargli una veste ‘temporale’ e probabilmente il personaggio nella vignetta 3 non sa che morirà nella vignetta 4. Ma noi si.
Tutto chiaro? Figo, vero?
Purtroppo, però, non siamo che umani (o almeno, io lo sono) e il tempo non ci appare circolare (come in Gardens Between) ma come una linea retta della quale possiamo vagamente vedere il passato e scorgere il futuro prossimo. Possiamo andare solo avanti, o al massimo fermarci e aspettare, ma mai possiamo andare indietro.
Possiamo forse ri-renderizzare il passato, in simulazioni mentali che ci consentano di rivivere qualcosa di perduto.
Ma spesso e volentieri, si tratta di simulazioni tronche, modificate e castrate al fine di ricordare momenti che furono come più preferiamo. Limitazioni autoriali sul tempo andato.
In maniera non dissimile da come fa l’arte, la letteratura e i videogiochi.
Ed è su questi principi che sembra nascere e crescere Three Fourths Home.

Un gioco che sposa il linguaggio di azione interattiva dei videogames con la potenza immaginifica dell’interattività letteraria, che ci obbliga ad entrare in una trance minimalista d’azione, ci chiede di immaginare qualcosa e ogni tanto ci regala dei fulmini di genio transmediatico per ricordarci dei flirt delle arti, dell’immaginazione e dell’immaginare le cose. Cose che non ci sono. O non ci sono più.
…
Un gioco dove, guardacaso, uno dei personaggi si diletta in brevi racconti letterari. Un gioco che ci costringe in azioni semplici e minimali al punto da non sembrare più azioni, al punto di farci dimenticare che le stiamo facendo e in questo modo dare valore ad ogni scelta che possiamo fare. Un gioco che si fregia della sua grafica minimale e della sua impostazione spietatamente orizzontale per raccontarci e ricordarci di vivere il presente, perché il rimorso è una bestia orribile e non ci saranno ricordi e interpretazioni che potranno sostituire le cose non dette.
Un gioco dove ogni parola ha più di un senso. Un gioco bidimensionale che ti spinge a scavare nella tua profondità. Un gioco che ti ricorda quanto possono essere belli e diversi e nuovi i videogames.
Un grande gioco, da provare e riprovare.
Sul quale piangere.
Una libertà, una costrizione.
E un rimorso.

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