“Hai giocato questo gioco?” “si l’ho giocato”.
In teoria questo scambio di battute dovrebbe essere scorretto.
Grammaticalmente un gioco non può essere giocato come un libro può essere letto o un film visto. Ma (dalla mia totale ignoranza) credo che queste siano rimasuglie di un tempo in cui i giochi erano unicamente attività e non opere con un inizio, uno sviluppo e una fine.
Il termine giocare è molto interessante e complesso perchè si porta in spalla una serie di ingiustizie e pregiudizi. È difficile prendere sul serio un’arte quando anche solo nella lingua parlata viene trattata come il fratellino scemo.
Questa rubrica, che si pone l’obiettivo di analizzare temi e tecniche di opere video-ludiche, preferisce fregarsene e passare dal serio al faceto, giocare con il concetto di gioco spogliandolo dall’aura di infantilismo che lo avvolge senza però rinunciare alla sua unicità dinamica. Prendersi sul serio e non sul serio. Giocare come in inglese, dove play vuol dire anche recitare, suonare o in genere essere attivi in qualcosa. Sono invitati gli appassionati così come i detrattori le cui perplessità combatteremo con un lapidario e altezzoso “eppur si gioca”.
La cura è bellezza. E la cura non sta soltanto nella profondità tematica o nella cripticità di un racconto o di un’esperienza. Spesso e volentieri la cura sta nella perfetta esecuzione di un idea, nella mano che un’opera ti tende senza che tu te ne accorga, per trascinarti in una specifica zona emotiva. Oggi guardiamo i primi minuti di gioco di Yoku’s Island Express e come riescono ad immergere ed educare il giocatore per poi dargli un colpo emotivo quando meno se lo aspetta.
È interessante, ma soprattutto importante, parlare delle potenzialità inespresse o poco omaggiate del media videoludico. Della capacità di creare storie, veicolare concetti, sintetizzare temi, esplorare nuove metodologie di esperienza e racconto.
È interessante, ma soprattutto importante, studiare i contorni di un media che di base è fatto principalmente per ‘divertire’ e vedere se può essere avvincente senza dover ricorrere allo ‘spasso’, in modo da esplorare zone dello spettro dell’animo che con il divertimento non hanno niente a che vedere.
È interessante, ma soprattutto importante, analizzare le meccaniche e vedere come si integrano con grafica e racconto, al fine di riempire di significato ogni azione del giocatore.
È interessante ed importante guardare in fondo ai media che fagocitiamo e cercare cose nuove che ci diano esperienze particolari e inedite.
Però, ogni tanto, è anche bello avere una piccola oasi tranquilla dove passare il tempo. Una sfida che ci stimoli senza frustrarci e che ci rilassi. Un mondo fantastico che ci faccia meravigliare senza però chiederci troppo in cambio.
L’intrattenimento da ‘grosse emozioni’ è spesso largamente sottovalutato. Le opere che ci lanciano enigmi da risolvere, ci mettono di fronte a sguardi sghembi e drammatici o pensieri scomodi e complessi, sono meravigliose e fondamentali, forse più di qualsiasi altro tipo di creazione. Ma è necessario non cadere nella trappola concettuale che vuole le opere da forti emozioni come frivole perdite di tempo.

Personalmente, riempitemi di film enigmatici, visionari e spaccacranio come 2001 Odissea nello spazio o il recente (e bellissimo) La Casa di Jack, che consentono alla mente ed alla creatività di ascendere a nuovi livelli, ma non trattate con sufficienza il grande film d’azione che fa stare tutta la sala sulle spine, trattenendo all’unisono un respiro collettivo, come fa un Mission Impossible: Fallout o Gli Incredibili 2.
Fatemi restare immerso ore negli incubi sonori dei Residents, ma se parte Don’t Stop Til You Get Enough di Micheal Jackson, consentite al mio corpo di dimenarsi nel cercare il Nirvana del ritmo.
Lasciatemi American Psycho e Il Giovane Holden, ma se mi togliete Harry Potter e la Guida Galattica vi mangio a morsi.
Cospargetemi di fumetti di Mazzucchelli e Eisner, ma guai a chi mi tocca Onepiece.
Ci serve riflettere, ma ci serve anche sentirci uniti e travolti da quelle emozioni basilari che ci possono far piangere, energizzare o rilassare, magari tutti insieme, unendoci nell’esperienza.
Alle volte si possono accontentare contemporaneamente entrambi i bisogni e se succede, è una delle cose migliori al mondo. È una possibilità che appare rara, ma è in realtà più frequente di quanto non sembri.
Anzi, anche le opere apparentemente più ‘easy’, devono avere qualcosa di forte e profondo da dire, se vogliono risultare efficaci o di qualità.
Questo qualcosa può essere inteso sia a livello di temi e tematiche, ma anche solo di forma.
Riuscire a scattare ad hoc una foto di pura gioia al cuore di un giocatore, ad esempio, non è impresa da poco.

Per questo ho amato alla pazzia Yoku’s Island Express.
YIE è un gioco che prende due degli elementi più tradizionali e ‘di facile appeal’ del mondo dei videogiochi e li mischia insieme in una maniera discretamente inedita.
Nel suo nucleo ludico troviamo i meccanismi dei videogiochi a punteggio, dove affrontare una sfida con buone prestazioni ci premia e dove ci viene chiesta una discreta capacità occhio/mano, utile a farci entrare in quella specie di magica e goduriosa trance da gameplay che trascendere il pensiero mutandolo in raziocinante, ma brado, istinto.
L’altro lato di Yoku’s, in stretta correlazione e contrasto con quello citato precedentemente, è quello del gioco d’esplorazione. Quella minimale sensazione di avventura nello scoprire una zona nuova, con nuovi pericoli o strade segrete che però ci strega e ci fa sentire immersi in un luogo magico.
Il lato esplorativo è rappresentato da una classica struttura Metroidvania (giochi generalmente caratterizzati da una mappa interconnessa che il giocatore può esplorare, anche se alcune aree sono spesso limitate da porte o altri ostacoli che possono essere superati solo una volta che il giocatore ha acquisito oggetti speciali, armi o abilità all’interno del gioco) con un mondo tropicale, pacato e colorato, pieno di buffi e divertenti personaggi che però riescono a non risultare mai stucchevoli o pedanti.
Mentre il lato a ‘punteggio’ è incarnato da…
…beh…
…da sessioni di flipper.
So che può sembrare una assurdità.
E in effetti lo è.

Ma credetemi quando vi dico che Yoku’s gestisce queste due anime in maniera egregia, incrociandole e facendole crescere a vicenda. Riempie la mappa di tante piccole sessioni di puro flipper, atte a collezionare punti (o meglio, frutta), punti che sono in realtà moneta sonante utile a sbloccare piccole scorciatoie o addirittura nuove zone della mappa e, al contempo, tutta la navigabilità dell’ambiente è spesso affidata ad una versione edulcorata di questa meccanica pinball, in modo da rendere l’esperienza sempre fluida e a far sposare le due anime del titolo.
Passare dall’adrenalina di una schermata flipper fissa all’esplorazione piena di pacatezza e sense of wonder è davvero un bel minestrone ed è inutile dire che, nelle fasi più avanzate, muoversi da una parte all’altra della mappa (magari strombazzando a tutto spiano con la nostra trombetta carnevalesca come degli ossessi innamorati del mondo), zeppi di nuove capacità e confidenza nel gestirle, è davvero uno stato che rasenta la pace zen.
Se da questa descrizione pensate che faccia al caso vostro, compratelo subito e sono sicuro che non ve ne pentirete.
Ciò che però mi ha colto alla sprovvista e fatto subito innamorare di questo titolo sono i primi minuti di gioco.
Yoku’s Island Express inizia con la schermata del titolo. Si preme start e si inizia a giocare. Dopo un breve filmato introduttivo il gioco vi fa esplorare in media libertà l’ambiente circostante.
Appena possibile vi mostra il tono generale, con una musica ritmata ma dolce e con l’incontro di alcuni personaggi divertenti e divertiti. Magari anche ambigui o addirittura minacciosi, ma sempre pregni di ironia.

Prima che ve ne accorgiate, durante questa presentazione del lato avventuroso, il level design introduce il metodo di navigabilità da flipper, tramite piccole varianti dei pannelli con i quali si colpisce la palla nel classico gioco a punti.
Subito dopo averci insegnato le basi, il gioco passa agli step successivi.
Ci introduce al concetto della raccolta di frutta, con la quale possiamo aprire piccole zone che prima ci erano precluse.
Successivamente ci instrada verso un paio di meccaniche da ‘quest’, del tipo ‘Non puoi passare da qui se prima non puoi trovare questa data cosa’, per capirci. Ci incamminiamo quindi in zone nuove, con la voglia di trovare quel che ci serve per proseguire.
Molto intelligentemente, prima di raggiungere il nostro obiettivo, il gioco ci pone davanti alle prime sessioni unicamente pinball, dove possiamo giocare in un ambiente sereno senza il rischio di subire alcun danno (in questo gioco non si muore, ma si perde frutta). La prima volta, tutto è incredibilmente semplice, proprio per farci prendere la mano e consentirci di padroneggiare le meccaniche. In un secondo momento, una nuova sessione propone una variazione su tema, che mette alla prova la nostra tecnica, chiedendoci di fare un passo in più e dimostrare di saper gestire situazioni più complesse e navigare lo spazio di gioco con più sfumature.
Pian piano, nel frattempo, l’esplorazione sembra mostrarci una serie di possibili zone che per ora ci sono inaccessibili, stimolando la nostra curiosità. Stiamo lentamente diventando più bravi e ora che abbiamo trovato ciò che ci serviva e fatto esperienza nel level design verticale del gioco, possiamo tornare sulla via principale che ci aveva regalato un vicolo cieco, superandolo.
Poco più avanti eccoci davanti ad una nuova situazione di stallo.

Per sbloccarci, adesso ci troviamo in una sfida che mette alla prova tutte le nozioni imparate fino ad ora. La sessione flipper coniuga tutte le meccaniche viste nelle precedenti, stavolta però non ci regala uno spazio sicuro. Qui si possono prendere danni e prendere danni vuol dire perdere frutta, e abbiamo già capito che, per quanto non drammatico, perdere frutta non è una buona cosa.
Allora ci impegniamo, mettiamo in pratica ciò che abbiamo imparato. La prova, comunque non è troppo complessa e non sembra niente di particolarmente rilevante ai fini dell’evoluzione del gioco, nei meccanismi del quale ormai siamo entrati più che abbondantemente.
Abbiamo avuto il tempo di capire il tono, le meccaniche, l’atmosfera e sentiamo anche di essere diventati abbastanza bravi. Senza pensarci molto, siamo prossimi a finire la missione. Una palla di cristallo grezzo fa fatica a sbriciolarsi. Ci costringe a ripetere la stessa azione per tre volte in fila, incrinandosi sempre di più, regalando catarsi a quel gesto reiterato e soddisfazione quando riusciamo a romperla e chiudere la sessione.
Ecco però, che inizia un breve filmato. La musica si spegne. La telecamera ci lascia sorprendentemente indietro. Pensavamo, a missione compiuta, che saremmo tornati dolcemente al punto di partenza, ma dopo un secondo di pausa ecco che invece veniamo scagliati a tutta velocità in alto, rimbalzando in verticale da un lato all’altro dello schermo.
Vediamo l’ambiente che abbiamo esplorato fino ad ora, ma tempo un secondo e ce lo lasciamo dietro per scorgere uno strato ancora più alto del mondo di gioco, zone mai viste. Piove ed è uggioso, come una premonizione di ciò che vedremo, in netto contrasto a ciò che abbiamo vissuto fino a quel momento. Sembra che il gioco ci voglia spostare in un mood diverso, ma in realtà sta facendo qualcosa di ancora più interessante.

Dopo questi pochi secondi di pioggia e umida malinconia, difatti, continuiamo la nostra ascesa, saliamo oltre le nuvole di pioggia e di nuovo al sole, nel cielo! Ancora più brillante, come a ricordarci che anche dietro le nubi più grigie c’è sempre bel tempo. Un monito a puntare in alto, nelle ore a venire.
Il nostro protagonista sorride pieno di energia, mentre il culmine dell’ascesa parabolica viene immortalata in slow motion, come a conservare il picco di quell’inaspettata e radicale salita e dirci ‘questo è ciò che vogliamo dirti’. L’inquadratura ci mostra esattamente il luogo che abbiamo visto nella schermata del titolo, con tanto di nome del gioco che troneggia, presentandosi in tutto il suo splendore colorato. Con il nostro arrivo nel cielo, una vetta si staglia sullo sfondo, risuonando con l’energica salita emotiva che ci ha appena scagliato su quello che sembra essere il tetto del mondo. Il tema principale riparte e ci regala quell’ultimo colpo di carica emotiva.
È un momento di sintesi, è un istante che ci dice ‘Tutto quello che hai visto fino ad ora, è quello che ti aspetta. È la sintesi di quello che il nostro gioco è. Hai vissuto l’esplorazione, i personaggi, la trance da punteggio, la placidità della foresta e l’energia del flipper. Hai dimostrato di saper padroneggiare l’ambiente e le meccaniche e hai avuto un’assaggio di cosa ti aspetta ma, per l’appunto, questo è solo l’inizio. Speriamo che ti piaccia‘.

Quell’istante in cui veniamo scagliati in aria senza accorgercene è geniale perché è un repentino climax di benvenuto del tutto inaspettato, visto che il gioco ci aveva silenziosamente accolto già da un bel po’. Tutta la parte che precede quel momento è un silenzioso tutorial che (proprio in quanto muto) ci inganna nel farci credere di essere già pienamente entrati nell’esperienza quando invece, con un’improvvisa e urlata accoglienza, ci svela che siamo ancora solo all’inizio.
Il tempo di abbozzare un sorriso e subito precipitiamo di nuovo giù. Nonostante il nostro aver visto il sole, subito veniamo rimessi al corrente delle nuvole e del fatto che ci dovremo avere a che fare, prima o poi. Però continuiamo a cadere, ci lasciamo indietro il temporale e almeno questo, forse, per il momento un po’ ci rassicura. Cadiamo ancora più giù, atterriamo dove pensavamo saremmo arrivati a missione finita e siamo liberi di riprendere dove avevamo interrotto, ora più curiosi e determinati che mai.
È molto probabile che io sia ormai diventato un tenerone super emotivo e che su di voi la geniale manovra di benvenuto del Team17 non avrà lo stesso impatto, non lo metto in dubbio.
Ma Yoku’s Island Express è davvero un’esperienza galvanizzante e rilassante al contempo. Un’isola di gioco puro, dove andare per mettersi alla prova e rilassarsi. Un mondo colorato e pacifico, seppur ironicamente e buffamente maligno quando vuole, una terra dove andare per riequilibrare e disintossicare lo spirito.
Ma soprattutto, è un’opera che ti fa interpretare uno scarabeo stercorario postino e che ti spinge a suonare una trombetta da carnevale in continuazione (l’avevo già detto che c’è una trombetta?), attirando gli sguardi infastiditi dei tuoi amici ai quali non potrai che rispondere con un felicissimo sorriso ebete.
E direi che, almeno in certi momenti, non c’è niente di meglio.
Ora, con permesso, vado a leggere un po’ di Camus.
Illustrazione di Alessandro Romita
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