“La Comune non fu una Rivoluzione per trasferire il potere da una frazione della classe dominante ad un’altra, ma una Rivoluzione per spezzare l’orribile macchina stessa della dominazione di classe”: le parole di Marx riassumono il concetto di dittatura del proletariato che egli stesso espresse per la prima volta nel 1852, per riferirsi alla situazione sociale e politica che si sarebbe instaurata immediatamente dopo la rivoluzione proletaria. Era il 18 marzo del 1871. Da allora sono passati 150 annioggi l’anniversario – ma quella rivoluzione, anche se solo per 72 giorni, cambiò per sempre il volto delle lotte operaie. Qualcuno lo sa. Il popolo di Parigi insorse per dare vita ad una forma di organizzazione autogestita, di stampo socialista libertario: la prima grande esperienza di autogoverno della storia contemporanea, tesa a contrastare quel governo che invece era intenzionato a far ricadere sul popolo il prezzo della Guerra franco-prussiana.

Dopo che gli insorti indissero le elezioni, le ragioni di quella ribellione furono approvate da una schiacciante maggioranza il 26 marzo: 70 degli 85 eletti si dichiararono a favore della Comune di Parigi. Quello fu il più importante evento politico della storia del movimento operaio del XIX secolo: una fase in cui il potere politico fu detenuto dai lavoratori, nella costruzione di una società senza classi e senza Stato.

I motivi della rivolta

Abbattere il dominio di classe esistente non sarebbe stato sufficiente: occorreva estinguere il dominio di classe in quanto tale. Per questo i militanti della Comune si batterono: per trasformare radicalmente il potere politico e la professionalizzazione della cariche pubbliche, in particolare. Per reimpossessarsi di quelle funzioni trasferite allo Stato, che il corpo sociale meritava. E numerosi sono stati i provvedimenti organizzati – tutti indicavano la strada del cambiamento – come quelli di limitare la durata della giornata lavorativa. La Comune – che adottò a proprio simbolo la bandiera rossa –  voleva instaurare una democrazia diretta. Così sancì la scuola obbligatoria e gratuita per tutti, dove l’insegnamento laico avrebbe sostituito quello religioso. E ancora: le officine abbandonate dai padroni sarebbero state consegnate ad associazioni cooperative di operai, e alle donne sarebbe stata garantita “uguale retribuzione per uguale lavoro”. Diritti sociali a cui potevano aspirare non solo i francesi, ma anche gli stranieri. Un progetto di difficile realizzazione, ma certamente ambizioso, che necessitava di grande partecipazione da parte dei cittadini: non solo emotiva, ma di numero. Una garanzia democratica che le troppe autorità in campo tuttavia ostacolarono.

Quello esistente a Parigi era di fatto un duopolio – affiancato da una miriade di commissioni centrali, sotto-comitati di quartiere e club rivoluzionari – composto da un lato dalla Comune, dall’altro dal comitato centrale della Guardia Nazionale, detentore del controllo del potere militare. Una situazione troppo precaria che si sfaldò definitivamente quando venne approvata la proposta di creare un Comitato di Salute Pubblica di cinque componenti – ispirata al modello dittatoriale di Robespierre nel 1793. Quell’approvazione si rivelò infatti un drammatico errore da cui scaturì la divisione della Comune in due blocchi contrapposti: i neo-giacobini e blanquisti, propensi alla concentrazione del potere e in favore del primato della dimensione politica su quella sociale; contro la maggioranza dei membri dell’Internazionale, per i quali, invece, la sfera sociale era più significativa di quella politica: la separazione dei poteri per loro era necessaria, e credevano che la repubblica non dovesse mai mettere in discussione le libertà politiche. Perché la sovranità apparteneva al popolo, non ai suoi eletti. Da qui si sancì la fine di un’esperienza politica inedita, e che si tentò di recuperare quando era ormai troppo tardi.

La “settimana di sangue”: fine della Comune

L’esperienza della Comune conobbe la sua fine il 21 maggio, con l’inizio del massacro più violento della storia della Francia, avvenuto in una settimana (dal 21 al 28) e subìto da almeno 200.000 parigini coinvolti nella rivolta: la cosiddetta “semaine sanglante”. Decine di migliaia di condanne e di deportazioni fecero seguito, mentre migliaia di parigini fuggirono all’estero. In tutta Europa, sottacendo alla violenza dello Stato, la stampa conservatrice espresse grande soddisfazione per il ripristino dell’ “ordine naturale” e del trionfo della “civiltà” sull’anarchia. Una sconfitta che tuttavia rafforzò le lotte operaie, spingendole verso posizioni più radicali. “Uniamoci e domani l’Internazionale sarà il genere umano” scriveva il rivoluzionario Pottier in quel canto che divenne il più celebre del movimento dei lavoratori. Fu da quel momento che Parigi dimostrò l’importanza di costruire una società alternativa a quella capitalista, mentre la Comune divenne il sinonimo del concetto stesso di rivoluzione.

Francesca Perrotta