“1997: Fuga da New York” è uno di quei film che, per certi versi, potremmo definire epocali. Ispiratore di generazioni di autori, copiato, imitato, parodiato e, per questo motivo, unico nel suo genere. Ideato da John Carpeter nel 1981, un’epoca in cui il cinema d’azione non era sinonimo di “caciara“, ci consegnò uno degli antieroi più amati del cinema moderno: Jena Plissken.
Jena Plissken in cerca del Presidente
Alla fine degli anni Ottanta, per sopperire alla continua crescita criminale, il Governo statunitense decide di rinchiudere tutti i peggiori delinquenti nel borough di Manhattan, tramutato in carcere di massima sicurezza dopo l’erezione di un’enorme muraglia. Il Presidente, atteso da un vertice ad Hartford con i leader di Cina e URSS (entrambi sul piede di guerra), viene rapito da un pericoloso fuorilegge che domina il carcere: il Duca (Isaac Hayes).
Il commissario Bob Hauk (Lee Van Cleef), per liberarlo, decide di mandare l’ex-eroe di guerra Jena Plissken (Kurt Russel), ormai datosi al crimine. L’uomo, insofferente alle leggi e alle istituzioni, sarà comunque costretto a salvare il Presidente per evitare che delle bombe – iniettategli con l’inganno da Hauk – lo uccidano. Jena avrà solo ventiquattr’ore per salvare il capo di Stato dalla tremenda fauna che popola la prigione, permettendogli di far ascoltare ai leader avversi un nastro sulla fissione nucleare.
“1997: Fuga da New York” come saggio sociale
Pochi film possono fregiarsi dell’appellativo di cult come “1997: Fuga da New York”. Una pellicola che, dietro a un velo di paradossale ironia, propone un mondo degradato, dove l’alta politica e il crimine finiscono per confondersi. La scena in cui il Presidente ottiene la propria rivincita sul Duca, crivellandolo con un mitra, è la perfetta rappresentazione del concetto di Carpenter. Jena, insofferente alle regole e alla politica, ma addestrato alla sopravvivenza estrema, è l’unica salvezza per scongiurare l’imminente guerra tra i due blocchi; non importa se si tratti di un fuorilegge. In una situazione del genere, non esistono più le fazioni buone e cattive.
Il nastro da portare in salvo
E’ proprio con questo scioglimento che Carpenter ci propone forse la scena più emblematica di tutto il film: l’ipocrita risposta del Presidente. Delle persone sono morte per salvarlo; lui stesso si è macchiato di un delitto con una foga inaudita, ma, subito dopo, rimessi i panni da capo di Stato, liquida Jena con un “i loro servizi sono stati molto utili per la causa nazionale“. Il protagonista, tuttavia, sapeva già che quella sua folle corsa per liberare il Presidente avrebbe ottenuto una misera ricompensa, pertanto decide di punirlo sostituendo l’importante nastro con una cassetta di musica jazz. Per poi distruggere l’originale incurante del caos che sta per avere luogo.
Una critica alle istituzioni
Un’opera dove le contraddizioni la fanno da padrone. Il potere in combutta con il crimine non è una tematica nuova, è vero. Tuttavia, potendo avvalersi di un’atmosfera unica, dove New York diviene la base di svariate tribù di assassini di ogni tipo, Carpenter ci mostra l’estremizzazione di una società corrotta, sotto ogni aspetto. “Domani sera, il Presidente non conterà più nulla”, afferma Jena.
Con tale sentenza, l’irresistibile protagonista della pellicola (uno di quegli antieroi per cui è impossibile non parteggiare), mette alla berlina le istituzioni. Come a dire: basta un fallimento e tutto crolla. Quanto sono solide le fondamenta su cui è costruita la nostra società? Lo stesso Presidente, infatti, rimane anonimo per tutto il film. In buona sostanza: potrebbe essere chiunque.
“1997: Fuga da New York” è forse uno dei film d’azione dalle implicazioni più complesse. Non un’opera “casinista” come siamo ormai abituati a immaginare le pellicole di genere, ma raffinata, saggia, cruda; reale e paradossale al contempo. “1997: Fuga da New York” è, semplicemente, un cult irrinunciabile.
MANUEL DI MAGGIO
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