Modena, 4 settembre 1977: Festa dell’Unità. Sono appena cominciati gli eventi che anticipano di una decina di giorni il grande raduno nazionale conclusivo organizzato dal Partito Comunista Italiano.
Ospite d’onore: il segretario generale del PCI Enrico Berlinguer, per un discorso che sarà applaudito da centinaia di migliaia tra tesserati, simpatizzanti, volontari e non addetti ai lavori.

Tutto intorno, nel Paese, soffiano venti di tempesta: stagioni di stragi, rapimenti e attentati affliggono l’Italia. Sono gli anni del ‘Compromesso Storico’, occasione di cambiamento cruciale della storia politica nostrana in cui si tentò (invano) un avvicinamento tra la Democrazia Cristiana e il PCI, propiziato da un lato da Aldo Moro e dall’altro proprio da Berlinguer, in un quadro di aspre critiche russe e americane.

Antonello Venditti ha 28 anni e vive  tutto questo da cantautore impegnato: da qualche tempo ha iniziato una carriera musicale che lo renderà molto popolare, ricco e famoso, complice una sterzata di sound e identità. Ma nel 1977 è ancora uno degli artisti-simbolo della partecipazione politica e sociale, delle cause nobili da affrontare, delle utopie, del privato che si fa pubblico, cantando di vicende difficili, verità nascoste, senza paura, senza mai voltare lo sguardo.

Eppure, proprio quella sera di settembre a Modena il ragazzo romano vive un segreto conflitto interiore. Forse inizia ad avvertire tutto il peso di certi errori, illusioni, chimere inseguite a livello personale ma anche e soprattutto collettivo/generazionale. Sul palco, mentre canta e suona il pianoforte per il suo “pubblico d’elezione”, per la prima volta non si sente ascoltato, vissuto, compreso. A chi sta parlando? C’è ancora un “Noi” capace di rappresentare il suo popolo?

E percepisce forse l’alba di un processo di riflusso, di disillusione che culminerà storicamente col rapimento e l’esecuzione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, trauma nazionale che, insieme a molte altre concause, porterà lui e milioni di altri giovani a ripiegare verso una dimensione privata del vissuto, fatta di disimpegno e allontanamento da certi ideali tristemente al tramonto.

Qualcosa nel rapporto con la sua audience abituale sembra essersi spezzato e Venditti, artista profondamente empatico com’era allora, riesce a sintonizzarsi con quelle onde emotive, a cogliere dubbi e tristi realtà insite in quel distacco. Una volta tornato nella sua Roma, riesce a dare anima e corpo a quell’ansia e a quel disagio, a quella “nuova paura” che trascende l’artista e si fa collettiva, immortalata in un brano che resterà tra i più riusciti mai scritti dal cantautore.

Nasce così “Modena”: canzone-isola che annuncia in maniera amara eppure molto sincera la fine di un’epoca, come si diceva il tramonto di un sogno, il passaggio traumatico dagli ideali della giovinezza alle responsabilità di un età adulta che sempre meno offrirà l’orecchio al canto di certe sirene. Da qui la necessità di fermarsi a riflettere, placare la rabbia e fotografare un Paese in mutazione genetica, raccontandolo come in un diario confessionale, con dedica ai compagni di viaggio, complici o soltanto vittime di una storia turbolenta.

Ed è l’essenza di “Sotto il segno dei Pesci”, l’album che Venditti scriverà e inciderà di li a pochi mesi, campione d’incassi e simbolo del nuovo corso artistico del Nostro. Il quale, va detto, avrebbe potuto facilmente inserire “Modena” in quel ciclo di canzoni, tanto il brano era una summa emblematica di tutti i messaggi contenuti nel disco. Eppure non lo fece, forse immaginando già come compiuto quel parto musicale, o forse perché sentiva mancare ancora un tassello. Un colore capace di infondere nuova linfa.

In effetti, all’epoca della prima stesura del brano una voce ancora mancava: il sax tenore di Gato Barbieri, jazzista argentino tra i più stimati. Conosce Venditti già da tempo, lo ritrova in sala d’incisione e regala a “Modena” ciò che mancava. Un respiro epico, intarsio di fraseggi e assoli di sassofono capaci di una forza e di un lirismo davvero commuovente, abbagliante.

Quella ballata pop, che già si presentava perla tra le più luminose del canzoniere vendittiano, diviene ora una di quelle performance che solo una volta nella vita illuminano il cammino di un artista.
Stella polare, “Modena” è luce nel buio e, pur nella sua disincantata amarezza, profetizza appunto un cambiamento epocale. Sono dietro l’angolo per Antonello gli anni di un pop dai risvolti decisamente più leggeri, piccole confidenze rivolte sempre più a un “Tu” e mai più a un “Noi”.

Eppure sembra ancora di vederlo: barba folta, occhiali e cappello, battere le dita sui tasti di quel pianoforte, riscaldato da calde coperte cucite da cori femminili, orchestra d’archi e un soffuso tappeto ritmico e di chitarre acustiche. E quando il suo canto, prima malinconico poi rabbioso e infine quasi disperato, si placa, ecco il sassofono a prendere il posto delle parole, lasciando alla musica e a Lei sola il compito di raccontare per colori, per emozioni, per immagini tutto ciò che davvero non si può esprimere se non così.

Ariel Bertoldo

Canzone: “Modena”
Artista: Antonello Venditti
Album: “Buona Domenica”
Data di uscita: settembre 1979
Genere: Ballata Pop
Durata: 7:50
Etichetta Discografica: Philips
Produzione artistica: Michelangelo Romano
Studi di incisione: Trafalgar e Mammouth; Roma