In occasione del’inizio della 68° edizione del Festival del cinema di Berlino, che avverrà il 15 Febbraio, noi di Metropolitan Magazine abbiamo avuto l’idea di proporvi alcune riflessioni su uno dei film vincitori del festival. La pellicola ha diffuso la fama ed il talento di Paul Thomas Anderson al grande pubblico. Il film in questione è il vincitore dell’Orso d’oro nel 2000. Magnolia.

L’opera in questione è una mastodontica riflessioni sulla casualità dei fatti e sulla vita, che vede intersecarsi le storie ed i vissuti di una decina di personaggi che ricercano se stessi e il loro ruolo all’interno di una dimensione pirandelliana continuamente indefinita. I personaggi richiamano più di una volta la loro estranietà alla dimensione spettacolare collegandosi alla realtà terrena degli spettatori. Questo loro accanimento nell’essere materia, svuota completamente il carattere d’invisibilità del racconto mettendo ancor di più in evidenza la finzione cinematografica. La pioggia di rane che colpisce la cittadina è vista come un fatto assurdo ma potenzialmente realistico. Un azione divina nata dall’inchiostro della penna dello sceneggiatore. Ė nell’assurdità del susseguirsi degli eventi che P.T. Anderson basa la sua pellicola ponendosi come obbiettivo quello di rendere il film più paradossalmente vero possibile. Il concatenamento degli eventi provoca un’unione di personaggi e di situazioni che vanno contro la finalità degli eventi e la chiusura temporale cinematografica. Seguiamo per tre ore il movimento estenuante della macchina da presa che sguscia da un personaggio all’altro. Il movimento della macchina da presa crea una linea immaginaria che unisce uomini, individui e attimi. L’occhio della telecamera è un gas che inonda lo spazio dove camminano gli uomini; occupa ogni centimetro disponibile e ci mostra le tante sfaccettature dell’ambiente. Un film di scenografia che ci mostra le tante visioni dei personaggi ma specialmente un film di attimi visti come mini

La scena della pioggia delle rane vista da uno dei protagonisti
John C. Reilly e Melora Walters in una scena del film

sequenze che unite creano la storia complessiva. La macchina da presa va di fretta nel riprendere le porzioni di spazio che la circondano. Deve riprendere più eventi possibili prima del grande accaduto che darà la svolta alla storia. non sappiamo quando arriverà perciò la ripresa di tutto, anche del futile, diventa necessaria. Chiave di volta tra il mondo della finzione e quello della realtà è la frase del prologo: «A me piace pensare che si sia trattato di una pura fatalità». La fatalità è un termine usato da noi ignoranti per non esporci all’esistenza di qualcosa che possa controllare i nostri eventi. Nell’universo cinematografico sono gli sceneggiatori i sovrani del tempo e degli accadimenti ma nella vita reale tutto ciò è un incognita assoluta tra la possibilità di un azione divina e ultra terrena e la possibilità di una realtà dominata dal caos. Le storie mostrate non sono casuali: Frank T.J Mackey (Tom Cruise) che finge di essere quello che non è, cela i suoi sentimenti per coprirsi dalle difficoltà che esse comportano. Il suo essere macho è una maschera creata per essere mostrata agli altri, o meglio, per difendersi dagli altri come in Televisione. Nei quiz televisivi i bambini sono privati della loro spensieratezza e usati come spettacolo da baraccone. Tutti si mostrano diversi per essere accettati, si mentono gli uni con gli altri creando tante copie di se stesse. Queste storture del nostro essere sono generate dalla società e dalla sue norme quindi non ci possiamo sorprendere se un poliziotto (John C. Reilly) ed una tossica (Melora Walters) si innamorano l’uno dell’altro promettendosi sincerità reciproca raccontandosi il peggio di loro. Anche loro cadranno inesorabilmente nelle convenzioni sociali e perciò decidono di non vedersi più per timore che la loro sincerità e il loro vero modo di essere possa incutere timore all’altro. L’analisi di P.T. Anderson è amarissima. Mentire sembra essere l’unica soluzione per poter stare nella società! Chi non segue queste linee guida è costretto a subire le conseguenze rischiando di essere respinto dal suo stesso padre. Seppur viene solo accennato da frasi oppure eventi, l’immaginario religioso, sembra esser costantemente presente. Sono molti i personaggi che si ritrovano a pregare, spesso inutilmente perché è l’uomo l’essere divino che può risolvere i problemi. Il canto finale Wise Up di Aimee Mann, canzone già utilizzata in un precedente film di Cruise, Jerry Maguire, sembra essere un preghiera rivolta verso loro stessi oppure verso un super uomo. Svegliarsi, destarsi davanti al torpore anche se gli eventi sfuggono o non sono come vorresti. Un Padre nostro contemporaneo sussurrato a bassa voce perché individuale e privato. Preghiamo un padre migliore, seppure forse inesistente, perché quello che abbiamo è diabolico come una serpe. Il tempo per familiarizzare è poco; gli uomini rimangono sempre soli, poche volte dialogano con gli altri e spesso è sempre uno contro più che una conversazione. Vorrebbe provare a parlare un padre (Philip Baker Hall) che abusato della figlia ma ella lo odia e lo manda via. La ragazza per non subire le pene dei suoi pensieri si rifugia nella droga e in storie sessuali da una sola notte. Anche Earl Partridge (Jason Robards) è un pessimo padre che prima di morire vuole parlare con il figlio che ha abbandonato. Gli scontri verbali sono alla base della pellicola che si fonda tra diversi controcampi che aumentano il valore dei personaggi. Sembra uno scontro cavallerizzo in cui i due interpreti sono uno di fronte all’altro, si guardano e alla fine scagliano i propri colpi esaltati dalla macchina da presa che accarezza ed ingrandisce le parole sussurrate. Il letto come giaciglio di vita e di morte dove molti si nascondono. Nel letto si conclude la via del ricco uomo che fa da snodo alle vicende cosi come da un letto si concludeva un altro film. In una stanza bianca in stile imperiale suona la musica di Strauss. Era 2001 Odissea nello spazio. Ora anche noi sentiamo la musica del compositore tedesco, c’è un vecchio morente ed un uomo in piedi sul giaciglio che lo guarda (Philp Seymour Hoffman). Spirito e colpo a pochi centimetri di distanza tutti e due eternamente soli nella fragilità dell’esistenza.

 

Quinto De Angelis