Tempo di elezioni. Tutti aspettano ansiosi gli esiti delle urne. Roba importante, insomma è il nostro Paese, il nostro futuro, le nostre speranze. Quando, però, iniziano a rimbombare nella tua mente quelle famose cinque paroline magiche “And the Oscar goes to…”, la tentazione di abbandonare per un attimo Mentana diventa sempre più incontenibile. E allora dagli studi di La7 di Milano si passa al maestoso Dolby Theatre di Los Angeles; tanti cari saluti alla mortale infezione della politica e ‘benvenuto’ rigenerante antidoto della settima arte!
Si è conclusa questa notte la 90esima edizione degli Academy Awards, che ha visto il trionfo de “La forma dell’acqua”, vincitore di quattro statuette, tra cui quelle per miglior regia e miglior film. La pellicola di Guillermo Del Toro è una bellissima favola in chiave moderna ambientata nell’America degli anni ’60, una “Bella e la Bestia” ai tempi della Guerra Fredda, in cui viene dato spazio a quel tipo di personaggi che anche Verga soleva rappresentare nelle sue novelle: gli emarginati. E nella loro condizione di emarginazione i vari personaggi si ritrovano, avendo proprio come punto in comune la loro diversità. Una diversità analizzata in tutte le sue sfaccettature: una diversità che può essere fisica, può riguardare le preferenze sessuali, il colore della pelle, l’appartenenza ad una specie invece che ad un’altra, ed è alla base dell’eterna lotta di prevaricazione tra uomo e donna da sempre. Il rimedio per poter abbattere queste stupide barriere? Semplice: l’amore incondizionato, anche, anzi, soprattutto quello apparentemente impossibile. “Amor vincit omnia” scriveva Virgilio. Tutto questo è ciò che è sapientemente contenuto all’interno del film del regista messicano, in un’atmosfera quasi incantata e dai toni fortemente fiabeschi.
“La forma dell’acqua”, a livello di critica, è un’opera che può essere amata alla follia, oppure, in alternativa, considerata una “cagata pazzesca”, come qualcuno giudicò la terribile “corazzata Potëmkin” a suo tempo: non esiste una soluzione a metà strada purtroppo, o è bianco, o è nero, nessuna gradazione di grigio nel mezzo. Fatto sta che, mentre voi state ragionando da che parte schierarvi, l’Oscar il caro vecchio Guillermo se l’è portato a casa!
Festeggiano anche Gary Oldman e Frances McDormand per aver meritatamente ottenuto il premio, rispettivamente, come miglior attore e miglior attrice protagonisti. L’interpretazione del primo è qualcosa di assolutamente perfetto: l’attore londinese ha saputo, in maniera davvero magistrale, calarsi nei panni di un impeccabile Winston Churchill, mettendo in evidenza con un eccezionale equilibrio le varie sfumature del poliedrico carattere dell’ex ardimentoso primo ministro inglese; da quella più edonista, dedita ad alcol e pisolini pomeridiani, a quella più stoica e risoluta davanti a situazioni decisionali cruciali. Ripeto e sottoscrivo, semplicemente perfetto!
La seconda, invece, attraverso il ruolo di una madre dolorosamente furiosa ed inasprita dalla atroce perdita che ha subito e da tutto ciò che ne è poi derivato, è riuscita a creare un nuovo modello di eroina tutta al femminile, in grado di rendere non ragnatele, sguardi laser, o potenti martelli divini, ma la sua encomiabile forza d’animo e la sua ossessiva sete di giustizia e vendetta le sue armi migliori. Probabilmente, per i più perbenisti, non sarà di certo una ‘eroina’ completamente positiva come è stata Hilary Swank in “Million Dollar Baby”, o Brie Larson in “Room”, ma i suoi metodi spesso eccessivi per sconfiggere l’indifferenza delle persone sono, senza dubbio, la triste e cruda testimonianza di una realtà in cui soltanto la sofferenza di coloro che sono capaci ad andare contro l’eticità e le proprie debolezze viene in qualche modo presa in considerazione.
Gigantesca anche la recitazione di Sam Rockwell (sempre all’interno del film “Tre Manifesti a Ebbing, Missouri” al fianco della McDormand), che si aggiudica il riconoscimento come miglior attor non protagonista, indossando le vesti di un ottuso poliziotto con un irrisolto caso di Edipo, che soffoca la propria idiozia nell’alcol e nella violenza. Un personaggio apparentemente banale e scontato, ma in realtà efficacemente complesso, che nel corso della storia sarà artefice di una climax comportamentale stupefacente, passando da allocco cocco di mamma, sempre facile preda dell’ira, a comprensivo altruista dal carattere più umano e sorprendentemente disponibile.
Chiude il cerchio la vittoria di Allison Janney come miglior attrice non protagonista, che nel film “I,Tonya” interpreta l’austera ed impietosa madre della pattinatrice Tonya Harding. Una donna glaciale, tirannica e dallo sguardo grifagno, che fa della nequizia la sua caratteristica principale, riversando sulla povera figlioletta tutta la sua inesorabile perfidia. E a differenza del personaggio di Sam Rockwell, questa volta, non assistiamo ad un idilliaco cambiamento di personalità, anche se, per un breve istante sul finale, l’astuta vecchia carogna riesce quasi a convincerci del contrario! Il risultato dunque? Una terrificante fusione tra Miranda Presley (la dispotica direttrice della rivista Runaway ne “Il Diavolo veste Prada”) e la signorina Rottermeier, con un pizzico di Bellatrix Lestrange. Il nostro più profondo augurio è che non ci siano realmente donne così in circolazione!
Di fronte alla magnificenza che anche quest’anno il mondo del cinema ha saputo offrirci, tra film straordinari, attori ed attrici monumentali, non posso fare altro che chiudere la mia analisi, parafrasando una citazione del famoso regista Frank Capra: “Il cinema è da considerarsi un linguaggio universale”. Amen Frank!
Tartaglione Marco