E’ l’agosto del 1866 quando il presidente Andrew Johnson dichiara formalmente finita la Guerra di Secessione americana. Il 9 aprile 1865 a rendere definitiva la resa degli Stati Confederati è stato il Generale Robert E. Lee, davanti alle truppe unioniste comandate da Ulysses S. Grant.

Ma in quell’anno e più di distanza tra la resa di Lee e l’annuncio di Johnson, gli Stati Uniti rimangono zona di guerra. Appomatox Court House, Virginia: è qui che Robert E. Lee incontra il braccio destro del comandante unionista, il parigrado  William Tecumseh Sherman, per discutere i termini della resa.

9 aprile 1965: l’effetto domino

Quello di Lee è il più grande ed efficente esercito al servizio della causa confederata. Una sua resa, non può che significare altro che sconfitta. Lo sa bene il Generale Joseph E. Johnston, a capo dell’esercito confederato del Tennessee. E’ per questo che lui stesso, tre giorni dopo e dopo aver appena perso Raleigh, accetta di buon grado la sorte già toccata al generale Lee. Ma i termini della resa non sono quelli che si aspetta il Presidente Johnson. Troppo generose le concessioni in termini di territori che il Sud chiede in cambio. Frustrato per il fallimento dei negoziati, il presidente confederato Jefferson Davis ordina al generale Johnston di riprendere lo ostilità. Johnston si rifiuta di tornare a combattere. Il 26 aprile raggiunge invece con il generale unionista Sherman un accordo molto simile a quello stipulato tra Lee e Grant più a nord.

I quasi 100 mila soldati sotto il suo comando abbassano le armi in Georgia, Florida, Nord e Sud Carolina. L’effetto domino non è che appena iniziato. Non appena le notizie della resa dei due eserciti confederati raggiunge l’Alabama, è il turno di arrendersi del generale Taylor, figlio dell’ex presidente Zachary Taylor, e dei suoi diecimila soldati. Gli accordi del 4 maggio ricalcano  a grandi linee quelli delle rese precedenti. “Che siamo stati sconfitti è ormai più che evidente. Qualsiasi ulteriore forma di resistenza da parte nostra non potrebbe che essere considerata altro che follia e avventatezza”. E’ con queste parole che qualche giorno dopo Nathan Bedford Forrest, capitano di cavalleria stanziato in Alabama, spiega ai suoi uomini le ragioni dell’immediata resa.

La vedo bene, Sig.ra Davies

I maggiori eserciti confederati hanno alzato bandiera bianca. Il presidente confederato Davis, che il 5 maggio ha dichiarato decaduto il governo federale, viene catturato dalle forze unioniste il 10 maggio mentre tenta di attraversare la Georgia con la moglie in una fuga disperatissima. I racconti nordisti dell’epoca lo ritraggono travestito da donna, i vestiti della moglie indosso in un estremo tentativo di mimetizzazione. Sembra tutto finito, ma a ovest del Missisippi si continua a combattere disperatamente. Poco importa agli irriducibili confederati texani che il presidente Johnson dichiari la guerra “sostanzialmente terminata”. Nella battagli di Palmito Ranch, trecento disperati agli ordini del Colonnello John “Rip” Ford sbaragliano 800 soldati unionisti, ma è un fuoco di paglia e l’esito generale del conflitto è già deciso. Lo scopre suo malgrado anche il Generale Kirby Smith, che vede le file del proprio esercito polverizzarsi nel momento stesso in cui arrivano le notizie riguardanti la resa di Lee. Diserzione di massa.

Il Generale senza esercito si arrende il 26 maggio. Anche nei Territori Indiani, poi diventati Oklahoma, si continua a combattere. Ci vorrà un mese buono perché il Generale Stand Watie, il primo nativo americano ad essersi schierato con l’esercito confederato, il 23 giugno decida di ritirare il proprio esercito dal campo di battaglia ed accettare la resa. Era l’ultimo generale confederato a non aver ancora accettato la sconfitta. I comprensibilmente lunghi tempi necessari alla comunicazione si fanno ancora più dilatati se, invece che sulla terraferma, ci si trovi in mare. Il comandante James Waddell, a capo della CSS Shenandoah, prosegue nel terrorizzare le imbarcazioni commerciali unioniste nello Stretto di Bering fino all’agosto 1865, momento in cui riescono finalmente a comunicargli la fine delle ostilità del 9 aprile. Non sapendo bene come comportarsi, prende la via dell’Atlantico in direzione Liverpool, Inghilterra, senza fare più ritorno.

Andrea Avvenengo

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