Una retrospettiva su un teatro, quello di Carmelo Bene, che si afferma disarticolando se stesso, che rifiuta di essere “chiacchiera” e non rappresenta, ma si presta alla ricerca incessante delle sue radici.
Ogni vocale sprofonda in abissi di risonanza.
Il significante si contamina con il senso, ne strappa i lembi sfocati.
L’ironia è febbricitante, la solennità folle.
Nel languore vocale le parole si rincorrono, si dilaniano, si azzannano. Si soffermano tragiche nell’abisso della pausa.
Carmelo Bene.
Un corpo scorporato da violenta torsione, un ghigno che sogghigna, un occhio roteante, convulso, strabico.
Ne riconosciamo il volto, nella penombra scenica del “Riccardo III” dedicato allo stimato amico Gilles Deleuze, a conoscenza del progetto scenico prima ancora che esso fosse realizzato; e rappresentato per la prima volta al Teatro Bonci di Cesena nel 1977.
Sottoposto pochi anni dopo ad un riadattamento cinematografico l’opera lo vede autore di regia, scene, costumi e interpretazione, mostrandosi come manifesto trasversale di un teatro tanto tonante quanto paradossale.
Nessun richiamo esso rivolge alla rappresentazione; assistiamo invece ad una creazione che si fa e nel farsi si disgrega, si divora, si attorce attorno al suo stesso svanire.
Una linea di negatività la attraversa; un che di dissonante e straziante.
Un uomo. Il suo volto dilaniato da una luce che lo taglia, sottoposto allo “σπαραγμός” del chiaroscuro.
L’orbita si contorce, le labbra si assottigliano, la bocca si fa taglio, invisibile visione di mostruosa cancrena.
Ma in principio, il Linguaggio.
Il timpano si apre al ruminare convulso di lessemi, al gorgoglio deglutito, alla cadenza discontinua.
Fessure e lacune.
Lembi e brandelli.
Riso e pianto.
Appena accennato il gioco di potere, l’intreccio, il gomitolo di cospirazioni ordite nella trama.
Al centro un soggetto, irrimediabilmente assoggettato, sfugge e si ricongiunge all’identità ancestrale.
Un teatro che rifiuta l’accumulazione, che toglie, scarnifica, e si fa disertore della presunta sua essenza.
Un’azione sospesa quanto irruenta si rifugia in un osceno che altro non è che fuori scena, demolizione scenica.
Molto riflette quest’uomo-teatro, sul ruolo significante della voce cui attribuisce una valenza di gran lunga più ampia rispetto ad un ormai banalizzato significato.
Se l’attore agisce, la sua azione è lancinante torsione, smorfia annichilente, che lo porta a dimenticarsi e dunque ad abbandonarsi.
Nulla è infatti riferibile, nulla comprensibile, tutto irrimediabilmente equivoco.
Anche il dialogo è assente; permane il monologo, talvolta asfissiante, e sempre dirottato verso il cupo soliloquio; o il dialogo monologante che vede come destinatari oggetti feticci, ora simbolici, come lo specchio, ora lacunosi come la parrucca che Riccardo abbraccia e che altro non è che il putrido moncherino della donna -ovvero dell’amore- che gli manca.
La visione, disarticolata al pari del linguaggio, procede rincorrendo la δύναμις del climax.
L’io, ormai sfiancato dall’ottenebrante solitudine, rivolge repentino lo sguardo alla moltitudine sincronica di donne e di corpi e come colto da fulmineo bagliore, amplifica il suo logoramento, urla e – veemente- si dispera.
Giorgia Leuratti