I colori marini dipingono il mondo dei personaggi de “La forma dell’acqua“(The shape of water) e li ritraggono sospesi fra le acque di una generazione pendula. La guerra fredda, la tensione costante, quel continuo procrastinarsi di un conflitto che pare inevitabile ma che è sempre stato evitato.
Il blu cobalto, il celeste mare, il paglierino della spiaggia, il verde del fondale e il grigio del mare scuro, in tempesta, dell’acqua al buio con la luna sola che si riverbera nel riflesso della sua superficie. Se si tenta uno sforzo di memoria quasi non si riesce a ricordare le immagini di quella pellicola colorate di altre tonalità. Questi i colori sulla tavolozza dei pittori di una generazione sospesa.
Eppure c’è il bianco della pelle, il candore della neve su cui fa affondare i piedi il dottor Hoffstetler in attesa del solito omaccione che gli balbetti contro una strampalata parola d’ordine, e il rosso. Il rosso degli arredi, scuro, e quello chiaro, del sangue che scivola nell’intercapedine fra l’incontrovertibilità di un morto e lo spasimo di un ferito.
(Foto dal web) Paul Austerberry
La fotografia, a cura di Dan Laustsen, non può che lasciare perplessi. E lo stesso vale per la scenografia: Paul Austerberry, che in occasione del lavoro prende e porta a casa una statuetta d’Oscar.
Perplessi, direte, è un termine vago. Spieghiamoci. Perplesso è ciò che genera dubbio: lascia nebuloso lo spettatore, che segue lo scorrere della trama con una mente stracolma di domande che non sono destinate,perlopiù, a trovar risposta.
Il film si porta a casa ben quattro oscar, uno al miglior film, uno alla colonna sonora(a cura di Alexander Desplat, già autore di alcuni soundtrack per Twilight e Harry Potter), una per la scenografia, e l’ultima statuetta alla regia affidata a Guillermo del Toro, che replica il successo di “Crimson Peak” con un
(Foto dal web) Guillermo Del Tororitorno col botto. Tredici candidature. Per non parlare degl’altri riconoscimenti: due golden globe, un leone d’oro, la presenza in questa lista dei migliori film dell’anno, e in quest’altra lista dei migliori film del decennio, e in quest’altra ancora dei film più presenti nelle liste dei migliori film, e, insomma, così via.
Ma l’esorbitante successo della critica è stato poi così meritato?
Questa, la domanda che si pongono i cultori della Settima Arte. L’Academy evidentemente non ha avuto poi tanti dubbi: quattro statuette non sono un regalo da niente.
Il film si apre col ritratto della liquidità di un mondo sub-marino e poi la prima immagine di Sally Hawkins che ascende dal soffitto di una stanza e si posa lievemente su un sofà, con gl’occhi chiusi e l’anima rapita da un sonno leggero.
(Photo by Amanda Edwards/WireImage)Una volta ascesa dall’alto, un taglio repentino, non brusco, veloce, specialità oramai ben consolidata del cinema di Del Toro, e si passa da una dimensione all’altra, da un tempo ad un altro tempo: con uno scatto celere la stanza si svuota e il finale diventa l’inizio, e il mondo si copre nuovamente di quel velo che nasconde la liquidità di un tempo. Ma di questo, poi, ne parleremo meglio fra un po’.
Elisa Esposito, muta, interpretata magistralmente da Sally Hawkins che, ricordiamolo, si ritrova a dover fronteggiare un personaggio che parla, sì, ma con gl’occhi, col corpo, con le mani, mai con le parole, insomma, una notevolissima Sally Hawkins lavora per una ditta di pulizie che netta un laboratorio governativo nel quale avvengono
sperimentazioni a scopo militare. Sua collega e amica è Zelda, interpretata da Octavia Spencer.
Elisa ha un caro amico: un vecchio e affabile pittore cui l’avvento della modernità ha reso difficile la vita, interpretato da Richard Jenkins.
I fatti si svolgono così: nel laboratorio, gestito dall’antagonista, Strickland(Michael Shannon nell’ennesima interpretazione del cattivo di turno), un giorno viene recapitato un esemplare di forma di vita anfibia, simile a un essere umano ma squamato, e con tutte le sembianze del celebre Mostro della laguna nera, Gill Man, dal quale Del Toro ha dichiaratamente preso ispirazione con l’intento iniziale di un sequel ideale della pellicola di Jack Arnold.
Elisa s’innamora del mostro marino, venerato dagl’indigeni come un Dio, e decide d’ideare un piano per portarselo a casa e salvarlo dalle nefandezze del laboratorio che studia l’esemplare per cercare di trarne un vantaggio bellico.
In effetti, tutta la vicenda si sussegue nelle viedi di Baltimora, anno domini 1962, sotto l’ombra della guerra fredda.
“Non ci serve imparare, ci serve che gli americani non imparino“, pronuncia una spia russa nel mentre della pellicola, rivolto al dottor Hoffstetler(Michael Stuhlbarg), una spia del KGB infiltrata nel governo americano per scoprire i segreti delle retrovie avversarie.
La stravagante storia d’amore fra Elisa e la creatura si protende lungo una via popolata da mille peripezie, con alcune sub-storie affascinanti, altre superficialmente trattate, altre ancora al limite del credibile.
Frame dalla pellicolaE d’altronde è proprio di questo che vuol parlare la pellicola: il limite del credibile. Esiste un limite a ciò a cui si può credere? Si potrebbe mai credere che una muta s’innamori di una creatura anfibia simile a quella descritta? Certo che no.
Eppure nulla ci sembra così incredibile mostrato dalle immagini di Del Toro. Neppure un rapporto sessuale fra i due, che, ora, a leggerlo, non si può far altro che pensare: “Ma vedi un po’ tu!”, e invece dinnanzi le immagini presentate dalla pellicola nulla sorprende poi così tanto. Tutto normale.
Scopo della pellicola è l’annichilimento dei limiti del credibile a favore della strutturazione di un’incredibile realtà, che, per quanto fittizia, cela dietro di essa delle verità di base universali.
Che siamo tutti immersi in un torrente di solitudine, che ognuno di noi è deficitario in qualche aspetto, e che tutto, tutto questo… non è un problema. Ci basta fare. “Se noi non facciamo niente, non siamo niente“. E ancora, non siamo il nostro deficit, siamo, invece, ciò che di salubre ancora resta in noi.
Elisa, sola, muta, ritrova sè stessa in quella stravagante creatura, sola, muta come lei, sradicata a forza dal suo posto nel mondo, al contrario di Elisa, radicata a forza nella sua mesta routine.
E la modernità, a proposito, è liquida perchè una volta che capovolgi un bicchiere d’acqua non c’è nulla da fare: scorre inesorabilmente fino alla superficie più vicina. Dai liquidi autobus che scorrono da casa a lavoro e da lavoro a casa fino alle liquide ambizioni di Giles che scorrono via al capovolgersi del bicchiere, e, cioè, allo stravolgersi di una società in cui, forse, prima, si poteva campare da pittori, ma adesso, con l’avvento della fotografia, non c’è posto per l’artigianato. E liquida è l’acqua, dal secchio che la donna utilizza per nettare i pavimenti, all’intera struttura della pellicola stessa: liquida, acquosa. Ritratto di una società fluida, scorrevole, veloce, in cui tutto quanto trova posto solo se si rende uniforme allo scorrere universale.
Liquido è un tempo sospeso, una generazione pendente fra la salvezza e la distruzione.
“Se noi non facciamo niente, non siamo niente“.
Le mani nodose di Elisa Esposito parlano al posto delle sue parole. Si rivolgono a Giles, la “reliquia”, quel pezzo d’antiquario che ancora sopravvive ad una società liquida, ad un tempo che scorre veloce come un flusso d’acqua in un torrente. Liquido il tempo, liquidi gli uomini, liquide le emozioni.