La vita di qualcuno, famoso o anonimo, può stare dentro un film? È molto probabile di no. Le biografie, tuttavia, costituiscono uno dei generi più popolari, portando milioni ai cinema di tutto il mondo, con la promessa di portare fedeli ricostruzioni dei fatti, “tutta la verità”, come se una simile impresa fosse effettivamente possibile. Il dramma musicale Bohemian Rhapsody, sulla storia della band britannica Queen, uscito la scorsa settimana nei cinema di tutto il mondo, è già uno dei grandi successi al botteghino del 2018, ma è anche al centro di un’accesa discussione.
Se la risposta del pubblico è stata entusiasta in tutto il pianeta, con le sessioni sempre piene, e calorosi applausi nei titoli di coda, molti critici hanno accusato il film di Bryan Singer ( I soliti sospetti), non solo di essere storicamente inesatto, pieno di buchi nella cronologia e fatti distorti, se non inventati, con l’intenzione di migliorare l’impatto emotivo del film. Alcuni accusano la produzione di tradire il ricordo del cantante della band, Freddie Mercury, morto nel 1991, vittima di complicazioni dall’AIDS.
L’omosessualità del cantante di origine indo-iraniana, nato nel 1946 a Zanzibar, Tanzania, sarebbe ritratta, secondo i detrattori arrabbiati di Bohemian Rhapsody, in modo pudico e pieno di paura. Per loro, il lungometraggio porterebbe uno sguardo eteronormativo a un protagonista gay dichiarato, stabilendo, addirittura, una relazione di causa e conseguenza tra il suo orientamento sessuale e la malattia che gli ha portato via la vita a 45 anni.
In realtà, Bohemian Rhapsody non è affatto uno studio del personaggio, che cerca di analizzare in profondità la travagliata biografia di Mercury, il cui vero nome di nascita era Farrokh Bulsara. La sceneggiatura di Anthony McCarten, scritta a partire de un primo trattamento di Peter Morgan (The Queen-La Regina), brancola a malapena questioni come la sessualità, identità etnica e il razzismo, essenziale per la storia del cantante dei Queen, gruppo apparso nello scenario del Rock britannico all’inizio degli anni ’70, che prima fece surf sull’onda del glam rock, per poi forgiare la propria identità mutante.
Dopotutto, Freddie non diventò un’icona culturale del 20° secolo nonostante la sua controversa biografia, ma anche grazie ad essa. Il filo del rasoio qui, quindi, è nitido.
Penso, tuttavia, che giudicare un’opera d’arte per quello che avrebbe potuto essere è un grave e fondamentale errore di origine. Se fosse stato gestito da registi queer, come Todd Haynes (di Velvet Goldmine e Carol) o Gus Van Sant (di Milk), questa critica forse avrebbe più senso. Ma Bohemian Rhapsody non è quel tipo di film e forse è per questo che ha avuto tanto successo.
Con un budget di $ 50 milioni, e una storia di produzione molto travagliata, con Bryan Singer licenziato dopo aver girato due terzi della sceneggiatura – il direttore è stato sostituito da Dexter Fletcher – il film presenta una visione panoramica ed emozionante, anche se superficiale, della traiettoria dei Queen, avendo Mercury come protagonista. La sua biografia è il filo conduttore della trama, ma non la sua ragione di esistere, sebbene l’esibizione di Rami Malek, attore americano di origine iraniana, sia notevole.
Ci sono errori cronologici e reali in Bohemian Rhapsody. La presentazione storica dei Queen nella prima edizione del Rock in Rio nel 1985, anche se molto valorizzata dallo script, viene messa fuori ordine, come se precedesse, ad esempio, la registrazione di “We Will Rock You”, inno registrato nell’album News of the World, pubblicato nel 1977. Nello stesso anno del festival brasiliano, il gruppo ha fatto una presentazione antologica al Live Aid, un concerto di beneficenza per raccogliere fondi per le vittime della carestia in Etiopia. È proprio questa la presentazione con la quale finisce il film. Secondo la sceneggiatura, Mercury, ormai, aveva già rivelato agli altri componenti della banda, Brian May (Gwilym Lee), Roger Taylor (Ben Hardy) e John Deacon ( Giuseppe Mazzello) la sua condizione di soropositivo. Questo però, non sarebbe vero. Ma fino a che punto il film può essere giudicato per questi errori? Questa è una discussione complessa.
Anche se basato su eventi reali, Bohemian Rhapsody è davvero un lavoro di finzione storica, non aspira ad essere documentario, genere che eventualmente anche non poteva andare al di là di un ritaglio, o di una rappresentazione della storia dei Queen e Mercury. Se la sceneggiatura del film è viziata e la maggior parte dei personaggi sono unidimensionali, mal sviluppati, il film funziona molto bene come spettacolo. Il dettagliato design di produzione (di Aaron Haye) e i costumi (firmati da Julian Day) compiono perfettamente la missione di ambientare il film tra gli anni ’70 e ’80.
Ci sono sequenze emozionanti, come la creazione e la registrazione di”Bohemian Rhapsody”, che dà il titolo al lungometraggio, una delle canzoni più emblematiche della storia del rock, che ci fa capire, forse, il motivo per l’enorme successo del film: la musica. L’eredità della band, i suoi numerosi e memorabili successi, sono al centro del film, e raggiungono il pubblico che, nonostante tutti i limiti di produzione, si arrende a tutta la sua esuberante e commovente imperfezione.