Da pochi giorni è in vendita nei supporti fisici e digitali “Afrodite”, il nuovo album del cantautore siciliano Antonio Dimartino.
Il primo inciso per l’etichetta romana 42 Records in collaborazione con Picicca.
Arriva a quasi quattro anni dall’ultimo disco solista, “Un paese ci vuole”, e a due da quello in collaborazione con il conterraneo Fabrizio Cammarata, “Un mondo raro”.
La sua è la Sicilia della nuova canzone d’autore: quest’isola del tesoro è forse l’ultimo avamposto di eccellenza che ci resta, l’ultimo rifugio sicuro in cui custodire quanto di meglio c’è stato, c’è e ci sarà delle migliori pagine del canzoniere italiano. Materiale sonoro/testuale in equilibrio tra passato e futuro, da tramandare orgogliosamente alle generazioni che verranno. Perché tra decenni sarà quel che resterà,
ciò che ci ricorderemo più volentieri in mezzo a tanto rap sottogenere “Trap” di cui poco o nulla supererà la prova del tempo, come mille altre mode passeggere.
Siciliano doc, Antonio Dimartino. Cittadino di Palermo, 36 anni. Quattro album a dimostrare una progressiva crescita autoriale/compositiva, una maturità sempre più sfaccettata e interessante. Tanto più quando si tratta di affrontare uno snodo cruciale della vita di ogni essere umano: la nascita di una figlia, la nuova armonia familiare, le responsabilità e le scelte che tutto ciò comporta.
L’artista giovane che si fa adulto, diventa uomo e guarda il mondo con occhi diversi: grazie alla musica può fermare il tempo per raccontare sé stesso ma anche i mutamenti politici e sociali che osserva tutto intorno a lui.
Il titolo del nuovo lavoro è “Afrodite”: la dea greco/romana della bellezza, dell’amore, della generazione e della primavera.
Venere ammaliante nata dalla spuma di mare, potenza divina capace di condurre in estasi maschile e femminile. In una recente intervista, l’autore ha affermato che la scelta ha evocato in lui “qualcosa di molto antico, protetto e allo stesso tempo psichedelico. Dall’ospedale di Trapani, il giorno in cui è nata mia figlia, ho visto, affacciandomi alla finestra, il castello di Venere sul monte Erice sotto al quale nasceva l’antico tempio di Afrodite e ho pensato che dovevo in qualche modo legare questo momento della mia vita a questo nome”.
Fa sempre piacere tornare ad ascoltare un album di Dimartino: nei momenti migliori senti pulsare nelle sue canzoni il cuore della migliore eredità cantautorale italiana (Battisti, Dalla, De Gregori, Gaetano, Graziani, Fossati), maestri e riferimenti le cui lezioni risultano interiorizzate, perfettamente assimilate quindi reinventate nel migliore dei modi possibili. La memoria, i sogni, le stelle e la strada.
E l’amore soprattutto: fuggevole ma anche solido come mai prima d’ora.
I suoi racconti riguardano la coppia, l’arrivo di una bambina, la bellezza da trovare nei temporali estivi, nei dischi del cuore e nella quotidianità, la lotta con sé stessi per non perdersi. E quando poi questo inevitabilmente avviene, anche l’impegno per ritrovare il sentiero.
Naufragare e nuotare ancora verso la propria isola. Che non è affatto la solita Sicilia da cartolina per turisti. E quando là fuori tutto sembra in mille pezzi, Dimartino respira di sollievo perché la sua vita familiare/sentimentale è integra. E il “Cuore Intero”, come suggerisce il titolo di una delle canzoni.
Ma in questo nuovo album ritroviamo molto anche la dimensione collettiva, il “Noi” a discapito del solito “Io”. Gli italiani con le loro paure,
le loro repressioni. Palermo e le sue contraddizioni, le luci delle festività, l’amore e la violenza.
Il lavoro preliminare è stato mirato e certosino: più volte si sono riscritte strofe e ritornelli, con l’intenzione di levigare, eliminare il superfluo per lasciare solo il necessario.
Non pago di ciò, Dimartino ha voluto imprimere un segno di svolta ancor più netto prendendo un’importante decisione circa la produzione artistica di “Afrodite”. Affidare la ‘regia’ a una mano distante dal suo mondo artistico/creativo. Quella di Matteo Cantaluppi, già artefice dei successi ultra pop di altri famosi autori, uno su tutti Tommaso Paradiso/TheGiornalisti.
Una sfida attraente ma potenzialmente pericolosa: sarebbe riuscito un Re Mida del pop nostrano, con la patina ‘glamour’ e ‘catchy’ che spesso imprime ai lavori cui collabora, con quel gusto spiccato per ritornelli ‘aperti’ nati per spaccare nelle radio commerciali, ecco sarebbe riuscito Cantaluppi ad entrare nella giusta risonanza con un animale di specie differente come Antonio Dimartino?
La risposta è affermativa: il risultato finale è ampiamente positivo per quanto riguarda la prima parte dell’album, i primi cinque brani.
Soltanto discreto nella seconda metà, là dove si è tentata una sperimentazione che risulta in fin dei conti poco incisiva, senza reale mordente, col rischio di girare anche un po’ a vuoto, qua e là. Ma nel complesso si tratta di un album riuscito.
Come di consueto, ritroviamo la tavolozza di colori propria dell’artista: tante tastiere (piano elettrico, synth, organo), basso e batteria. La chitarra utilizzata per lo più in funzione ritmica, di accompagnamento.
Lo spazio vitale dell’album è in buona parte ampio, arioso, accogliente.
I toni talvolta languidamente ballabili, altrove morbidamente malinconici, con la voce che sa dove enfatizzare, mettere i punti e le virgole, colorare.
Come si diceva, se il disco fosse un film il nostro plauso andrebbe alle emozioni vissute nel primo tempo: cinque brani splendidi tanto nel formato ballata in terzinato (“Due Personaggi”; “Feste Comandate”) quanto nei singoli colmi di groove (“Cuoreintero”), nella galoppata rock a briglia sciolta (“Pesce d’aprile”) o nei rimandi battistiani (in “Giorni Buoni” non possiamo non cogliere echi di “Amarsi un po’”).
Nel secondo tempo – con l’eccezione della conclusiva “Daniela balla la samba” nella quale si ritrova la forma migliore – quando i colori si fanno scuri e lividi, dolenti e pessimisti, la qualità ne risente e l’ascolto perde spessore. Dimartino sentiva di dover cambiare alcune carte in tavola, l’ha fatto e gli diamo senz’altro merito di aver sfidato sé stesso tramite ritmi, suoni e timbri per lui non usuali, complice una produzione diversa.
Ma pezzi come “Ci diamo un bacio”, “Liberaci dal male”, “I ruoli” e soprattutto l’imbarazzante – anche se voluta – provocazione ‘latin neo-melodica’ de “La luna e il bingo” non ci hanno colpito in positivo e non possiedono la polvere magica delle precedenti.
Ariel Bertoldo