Quando ero poco più di un bambino, i miei genitori solevano lasciarmi a casa del mio nonno, e non essendo un grande oratore, aveva il gusto di piantarmi davanti al televisore a farmi guardare gli unici due sport che avevano ragione di esistere per Lui. Uno era il compianto ciclismo, mentre l’altro era l’affascinante e nobile arte della boxe. Del primo rimasi appassionato solo del mezzo, ovvero la bicicletta, mentre del secondo, con la visione estenuante di videocassette, nacque in me una forma naturale di rispetto che ben poche volte ho riposto in qualche altra disciplina sportiva. Sono nato e cresciuto nel periodo del fenomeno Mike “Iron” Tyson, ragazzo dotato di potenza e prestanza fisica unica, che gli permisero di diventare a soli vent’anni campione mondiale dei pesi massimi. Ma non sono qui per parlare di Mike considerato il peggior sportivo degli ultimi anni a causa anche dei suoi comportamenti al di fuori del ring. Sono qui per tentare di spiegarvi quella che fu la più grande icona sportiva mediatica degli anni ’60 e ’70. Nato a Louisville come Cassius Clay e morto a Scottsdale come Muhammad Alì, “The Greatest” fu uno dei personaggi che, come pochi, entrò di prepotenza e di diritto nell’immaginario collettivo, non tanto e unicamente per le sue doti pugilistiche, ma anche per la sua arte di trash-talking, parlando di problemi non legati sempre al pugilato. Ogni parola di Alì era un diretto al proprio avversario, un avversario che faceva di nome Stati Uniti d’America. Fin da bambino fu vittima del razzismo, un morbo che non lascerà mai del tutto il continente americano. Dopo essersi laureato nel 1964 campione del mondo (a sorpresa) contro Sonny Liston, giorni dopo deciderà di cambiare il proprio nome in Muhammad Alì,  promuovendo inizialmente il separatismo nero e poi, con la pratica del sufismo (ricerca mistica tipica della cultura islamica) l’integrazione razziale. Il tutto sotto l’influenza di un ragazzo che aveva da poco conosciuto e dal quale nacque una amicizia, Malcom X. La X non stava certo a indicare un tesoro su una ipotetica mappa, ma indicava con forza inaudita un grido di ribellione pura. Storicamente, agli schiavi neri negli Stati Uniti d’America veniva assegnato il cognome dei loro padroni. La scelta della “X” come cognome rappresentava il rifiuto di accettare questo legame anagrafico con i padroni di un tempo. Semplicemente geniale!  Come geniale fu il primo “incontro” tra il governo statunitense e Alì, il quale rifiutò la chiamata alle armi contro il Vietnam, che possiamo sintetizzare con una frase celebre che testimonia l’epoca di tensioni: ” Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato “negro”. Questo rifiuto, ma soprattutto la spavalderia e il coraggio dei suoi pensieri, gli costarono il ritiro della licenza delle commissioni atletiche pugilistiche statunitensi. Il suo rientro avvenne nel 1971, ma fu il 1974 a segnare una data storica per la boxe, quello che, a detta di molti, fu il più grande evento sportivo a livello planetario, il Rumble in the Jungle. Alì contro il campione George Foreman. Prima del match, Muhammad cercò di innervosire il suo avversario, insultandolo pesantemente e irritandolo con i suoi comportamenti provocatori, una strategia che lo caratterizzava da sempre. Contro ogni pronostico Alì vinse l’incontro grazie ad una tattica sorprendente e del tutto inattesa chiamata rope-a-dope. E’ una tecnica pugilistica che ha come obiettivo quello di sfinire l’avversario e indurlo a fare errori, così che questi si possano sfruttare per un eventuale contrattacco. Si dice che il concetto di questa strategia gli fu suggerita dal fotografo sportivo George Kalinsky, il quale gli disse: “Perché non provi qualcosa del genere? Una sorta di droga tra le corde, lasciando che Foreman scivoli via ma, come nella foto, fargli colpire nient’altro che l’aria.” Per semplificarvi le cose  vi rimando alla visione del più scarso dei film di Rocky, ossia il terzo capitolo contro Mr T. Mi viene da pensare ingenuamente che se fossi l’autore di un libro che ha come protagonista l’uomo virtuoso di cui ho narrato finora, scriverei il finale perfetto, degno della spacconeria che lo ha contraddistinto per tutta la vita, perchè altro non potrebbe essere aggiunto all’uomo che volle farsi re, che era diventato un campione per il popolo e per lo sport. Ma il mito di Icaro insegna. Da lì, da quell’incontro, iniziò il declino lento e inesorabile di chi sapeva, che il dono donatogli da Dio come Lui stesso affermava, stava cominciando a esaurirsi. Alì non danzava più sul ring e mai nessun’altro riuscirà nell’impresa. Ritiratosi nel 1981, nel 1984 gli verrà diagnosticato il morbo di Parkinson, un’avversario troppo forte  anche per uno come Lui che, dopotutto, era riuscito a sconfiggere Superman (vi consiglio di recuperare il fumetto). Una cosa è certa, era riuscito a sconfiggere i pregiudizi razziali del suo tempo, era riuscito a essere il portavoce di una generazione stanca delle angherie e dei soprusi e sorrido a pensare cosa avrebbe detto oggi del neo presidente americano Donald Trump. Magari si sarebbero incontrati dando vita al  più grande dei trash-talking della storia e di certo non sarebbero volate farfalle ma parole che avrebbero punto come api. L’ultima danza divina e inimitabile di Alì. Infine il gong e le grida avrebbero dato inizio all’ennesimo spettacolo. Come sorrido….

 

Giacomo Tridenti.