L’attore al suo esordio come scrittore si racconta al ScrittuRa Festival di Ravenna. Il teatro? “Rifarei ancora Amleto”
Simpatico, sornione, sfuggente e, ovvio, bellissimo. Kim Rossi Stuart, 50 anni il 31 ottobre, attore, regista, sceneggiatore, debutta come scrittore con Le guarigioni, edito da La Nave di Teseo), cinque racconti che presenta al palacongressi di Ravenna nell’ambito della rassegna letteraraia ScrittuRa Festival sabato 1 giugno.
Intervistato da Matteo Cavezzali e Stefano Bon, per tutta la durata dell’incontro è un’alternarsi di momenti umoristici a riflessioni profonde. In prima fila la moglie Ilaria Spada, in attesa del loro secondo figlio.
L’idea di scrivere un libro, racconta, è nata poco tempo dopo la proposta dell’editrice Elisabetta Sgarbi di pubblicare una sua opera. “Ho risposto di no, all’inizio, perché il mio lavoro è fare l’attore. Poi però l’ho richiamata e ho accettato. Avevo già scritto i miei due film e la sceneggiatura di Vallanzasca per Michele Placido, ma si trattava comunque di una scrittura filtrata attraverso la prospettiva cinematografica. Con Le guarigioni ho sperimentato invece una totale libertà che per me è stata liberatoria”.
Aggiunge poi Rossi Stuart: “Dev’essere perché è più affine alla mia natura. Io sono, per carattere, davvero poco attore. La parte del mio lavoro che amo di più è quella di mettermi a tavolino a studiare il personaggio.
Ma di cosa parlano questi racconti e quale il fil rouge che li lega? Cinque racconti per cinque differenti generi, dal thriller al racconto di formazione, dallo sfondo religioso a quello psicanalitico fino alla distopia. Cinque stili diversi, ma i personaggi, dice l’attore, si possono alla fine ricondurre a uno solo. Sul perché della scelta del titolo, Rossi Stuart spiega che Le guarigioni era un titolo che racchiudeva il senso comune a tutti i racconti dove c’è sempre qualcuno che vuole guarire da qualcosa o guarire qualcun altro.
Le guarigioni di cui ha scritto “hanno a che fare con il senso di colpa e il perfezionismo che sono molto legati tra loro. Cita l’opera di John Steinbeck La valle dell’Eden dove la vicenda di Caino e Abele è il fulcro della sua riflessione sull’uomo che tenta di fuggire dal questo tradimento che rappresenta l’archetipo della colpa e che ciascuno si porta dentro. Uno dei modi per farlo è il perfezionismo. Che alla fine però rende assurda la vita.
A Stefano Bon che sottolinea come nel libro siano presenti i racconti familiari, Rossi Stuart smentisce divertito: “Nel primo racconto la madre è morta e quindi è per forza distante. Nel secondo racconto c’è solo una madre, il padre non c’e”. “E nel terzo?”, insiste Bon. “Nel terzo – risponde non c’è ne madre, né padre. È il racconto del terrore atavico del maschio verso il femminile fagocitante. È la storia di una coppia che decide, bene o male, di stare insieme e diventare una famiglia. Quindi Bon ti devo ufficialmente smentire”.
Poi è la volta di Cavezzali, che sottolinea come il tema del rapporto padre-figlio, presente sia nel primo racconto che nell’ultimo sia un tema che ricorre, forse legato al fatto che ora sta per diventare padre una seconda volta.
No, ribatte l’attore-scrittore “quando ho finito di scrivere il romanzo mia moglie non era neppure incinta”. “Stiamo facendo un figurone”, dice Bon, fra le risate del pubblico. È un Rossi Stuart che spiazza, non c’è che dire, abituati come siamo a vederlo laconico.
Si sofferma a raccontare la trama dell’ultimo racconto, che è una distopia ambientata nel 2070, dove ad un certo punto, l’umanità dimezzata e abbruttita, è colpita da un virus che diffonde bontà e pace.
Anche se tutti diventano buoni, però, questo clima di gioia perenne si trasforma in una non vita, da cui un giovane prete, l’unico rimasto immune, nel suo dialogo con Dio, si convince che il suo compito sia quello di reintrodurre quella dose di male necessaria all’uomo perché torni ad essere indipendente nelle sue azioni. Augurandosi che questa volta faccia un uso migliore del libero arbitrio.
Ma quanto c’è di biografico in questo libro? “Nella distopia fatico a ritrovare qualcosa di mio. Nel primo, invece ci sono cose in cui mi ritrovo. La storia del rapporto fra padre e figlio è ambientata in un maneggio della campagna laziale. Io ho effettivamente vissuto con la mia famiglia in un ranch quando avevo dieci anni”.
Il secondo racconto, che è anche il soggetto da cui è stato tratto il film Tommaso che ha diretto nel 2016, “gioca molto sulla sensazione della totale messa a nudo dell’autore”. E che lui definisce “autoreferenziale”.
“Nel cinema ci sono stati Woody Allen, Cassavettes, Fellini. Fellini con Otto e mezzo è forse quello che si è messo di più sulla graticola, tirando fuori delle cose anche abbastanza scomode. Questo è un genere che si può fare in due modi: uno in maniera un po’ autocelebrativa oppure nell’altro modo, che è quello che a me interessava.
Mi sembra che alla base di tante sventure, di tanti conflitti e tante sofferenze degli esseri umani ci sia sempre l’idea di dover presentare il meglio. Invece c’è una parabola evangelica, le nozze di Cana che dice, se non sbaglio, il vino buono alla fine. Come a dire: se abbiamo la forza di passare attraverso la sofferenza probabilmente alla fine avremo il vino buono”.
Sul perché preferisca non leggere ad alta voce brani del suo libro al pubblico confessa di essere rimasto traumatizzato da bambino quando era alle scuole medie, gli chiedevano di leggere ad alta voce, a lui spariva la voce e tutti lo prendevano in giro.
Cosa gli piace leggere? Da giovanissimo i romanzi di Pasolini che lo hanno folgorato, poi Hesse e Kundera verso i 20 anni, “La versione di Barney” di Mordecai Richler, Dostoevskij attorno ai 27 anni soprattutto con L’Idiota. E ritorna a citare Steinbeck, autore di cui sta scoprendo la capacità di accoppiare vicende e personaggi avvincenti con riflessioni teologiche e filosofiche profonde, oltre a saper mettere in scena con grande libertà i suoi familiari.
Il teatro gli manca? “Sì moltissimo, e spero di tornarci al più presto. Mi piacerebbe rifare Amleto, negli ultimi due anni mi sono avvicinato molto al cristianesimo e mi sono accorto di quanto quest’opera sia attraversata da un’analisi cristologica. Poi mi piacerebbe Il gabbiano di Čechov”.
Bellezza e talento fuori dal comune sono mai state per lui un problema invece che un vantaggio? “Questa è una domanda impossibile, qualunque cosa risponda sono fregato. Io da adolescente sono stato molto complessato e anche adesso mi vedo strano.
Riguardo il talento io devo ammettere di avere faticato molto per riuscire come attore. Per fare alcuni personaggi mi sono talmente fatto totalizzare dal lavoro che non so se sia talento, questo, o maniacalità”.
Info più approfondite:
(http://www.lanavediteseo.eu/) (https://www.ilfattoquotidiano.it/blog/mcavezzali/ )
Anna Cavallo