Se, come ammonisce un noto proverbio in latino volgare, mater artium necessitas (“la necessità è madre delle arti”), la poesia – in quanto arte del suono e della Parola (sia detta che taciuta) – dovrebbe restituirci la sua specifica e sostanziale necessità di rivelazione, senza per ciò scadere nell’ideologia dell’espressione e della comunicazione.

Ma si è prima poeti o oratori? Poeti o attori? E ancora, si è prima
poeti o poeti postumi? Domenica sedici giugno si sono riuniti al WEGIL più di sessanta poeti, nell’ambito del Roman poetry festival, evento correlato alla mostra fotografica Poeti a Roma. Resi superbi dall’amicizia (aperta fino al 23 giugno) e curato da Igor Patruno, diretto da Renzo Paris, in memoria del Festival internazionale dei poeti di Castelporziano, che compie quarant’anni. Ne furono i promotori, a vario titolo, nel giugno del 1979,
sull’onda del fervore-furore sociale e letterario di quegli anni post ’68, Renato Nicolini, Simone Carella, Ulisse Benedetti e Franco Cordelli, che in un’intervista ricorda come il germe dell’idea appartenga a Giuseppe Bartolucci.

L’idea era quella di “mettere in scena” la poesia, ovvero: la resa corporea dell’autore, “dicendo altrimenti” il proprio testo al pubblico, avrebbe dovuto creare un certo equilibrio (o disequilibrio o squilibrio in senso figurato) fra corpo, scena e parola. In tal senso, Castelporziano divenne il palcoscenico di tutto ciò che all’apparente nuda parola si sottrae in una piega rivestita di vuoto, ma che vuota non è.

Annota Cordelli, in Proprietà perduta (Guanda, 1983), di quei giorni trascorsi tra Ostia, Catelporziano, la spiaggia e l’albergo Enalc: “ogni questione critica sulla poesia là recitata sembra secondaria. Ogni sociologia del pubblico anche. Il punto consiste nell’aver inventato uno spazio vuoto, che si è riempito di conflitti, collisioni, di esplosioni mutevoli, nel
segno drammatico della <situazione>: grande guerra tra pubblico e poeti, guerra media tra pubblico e pubblico, microguerre, interne a ciascuno, tra persona e ruolo, desideri e proiezioni, gesti e fantasmi. Tutti contro tutti, anche contro il se stesso di un attimo prima”.


Sono stati giorni di battaglia (non a caso fu battezzata “la battaglia di Castelporziano”) e di ostile effervescenza, come ben documenta il film Ostia dei poeti di Andermann (1980). In tanti confluirono a Castelporziano, presentandosi corpo e voce su un palco di quaranta metri per dieci, lambito dalle onde: fra gli altri, alcuni fra i maggiori esponenti della Beat Generation, Ginsberg, Burroughs, Corso e Ferlinghetti; De Angelis, Cucchi, Viviani, Zeichen, Orengo, Bellezza e Vassalli; Evtušenko, con Ginsberg preoccupato di difendere l’“onore dei poeti”.

Dicevano “il pubblico deve fare il pubblico” (Proprietà perduta). Il Roman poetry festival mi è parso un po’ caotico, non a causa del pubblico, peraltro inerte, ma per la mescolanza di testi maturi e testi acerbi; tuttavia, dati il significato dell’incontro, nonché l’importanza linguistica e paralinguistica di “compromettersi” con una lingua poetica che sia parola e corpo, ogni critica risulta fuori luogo. Ricordo, fra i molti, Annelisa Alleva co un’insolita (per lei) poesia in romanesco, Maria Grazia Calandrone, Silvia Bre, Sara Ventroni, Gilda Policastro e la sprezzatura nel lancio a terra dei fogli, gesto déjà-vu ma perspicuo e ben eseguito; la postura inerme di Carlo
Bordini, scomposta da un leggero tremolio delle mani, Claudio Damiani, Vincenzo Ostuni, un Alfonso Berardinelli divertente e la di lui poesia sull’inermità, infine Luca Archibugi con buffi occhiali fashion e il suo poemetto Cameriere, lascia stare, cadenzato dal ritornello “voglio morire al night”. “Ma lì anche (al night) e forse sopra / tutto e ancora sottosopra, / s’aggirano fantasmi”.