Ricerca innovazione e crescita economica sono legate a filo doppio ma la politica e l’opinione pubblica italiana sembrano ignorare queste componenti chiave della crescita. Con una crisi di governo in atto e non tanto timidi accenni di campagna elettorale, anche questa volta sembra che gli italiani si stiano dimenticando di inserire ricerca e innovazione nelle “ricette” economiche, scommettendo invece sulle classiche formule magiche del “taglio delle tasse” e del “più posti di lavoro” per tutti.
Sono i giorni concitati di una crisi di governo e come da copione non mancano le sparate da campagna elettorale. Come previsto non si sono fatte attendere le dichiarazioni di rito di questo e quel partito, vecchio o nuovo che sia, in cui si fa sfoggio della classica promessa a cui ormai non crede più nessuno: meno tasse e più posti di lavoro per propiziare la crescita economica ma nessuno che parli di ricerca, innovazione e crescita economica
Sono più di vent’anni che il rito propiziatorio delle promesse di meno tasse e più posti di lavoro si rinnova di elezione in elezione senza però che si sia mai visto il tanto atteso prodigio della crescita economica. È curioso come ormai il problema dell’economia nel nostro paese venga affrontato allo stesso modo del miracolo del sangue di S. Gennaro: ripetendo costantemente gli stessi riti e le stesse litanie aspettando con fede che il miracolo finalmente si compia.
Se non vi dispiace preferirei soprassedere sulle dichiarazioni di questo o quel politico per occuparmi di qualcosa che manca sistematicamente dall’agenda politica di TUTTI i partiti che si sono succeduti sulla scena, almeno dagli anni 2000 ad oggi (o almeno questo è il periodo che ricordo io): la ricerca, l’innovazione e la tecnologia come motori della crescita economica.
Definiamo il concetto di crescita:
Per crescita economica si intende un aumento della produzione di beni e servizi in un sistema economico. Innovazione e ricerca sono storicamente profondamente legate alla crescita economica; lo sviluppo di nuove tecnologie apre le porte a beni, servizi e professioni completamente nuove, basti pensare alla rivoluzione informatica degli anni ’80 e ’90.
Ricerca e innovazione
Che cosa ci dice l’economia riguardo al ruolo dell’innovazione e della ricerca nella crescita economica? Nel 1957, R. Solow (premio Nobel per l’economia nel 2014) osservò come negli Stati Uniti, tra il 1909 e il 1949, la rendita lorda per ora di lavoro fosse raddoppiata ma solo 1/8 di essa poteva essere spiegato in termini di teoria economica classica (aumento del capitale, investimenti ecc.). Secondo Solow, la spiegazione dei 7/8 restanti andava ricercata nel miglioramento dei sistemi di produzione (elettricità, motore a scoppio, ecc.): innovazioni che rendevano il lavoro più efficiente, aumentando la produttività.
La teoria di Solow fu rivista da un altro economista, Dennison, che studiando gli anni tra il 1929 e il 1982, ridimensionò il peso delle componenti della crescita pur riconoscendo che quasi 2/3 della crescita erano attribuibili all’innovazione scientifica e tecnologica di quegli anni; ma sarà solo nel 1990, con P. Romer, che si avrà un vero modello di crescita economica che tenga conto dell’innovazione.
I punti della teoria di Romer sono (a grandi linee):
- La crescita economica è trainata dal cambiamento tecnologico.
- È la riserva di capitale umano (persone di talento) che determina la crescita
- L’accesso al mercato globale aumenta l’accesso al capitale umano e dunque la possibilità di crescita.
- Una popolazione numerosa non è condizione sufficiente allo sviluppo dell’economia se il capitale umano non è attivamente impegnato in ricerca e innovazione.
I “prospectors”: a caccia d’oro
Per farci un’idea di come funziona il modello, immaginiamo un’ipotetica corsa all’oro. I nostri cercatori d’oro sono quelli che vengono chiamati “prospectors”, ovvero coloro che cercano attivamente l’oro sul campo: maggiore è il numero di questi “prospectors”, maggiori le probabilità di trovare una grossa vena d’oro che ci renderà tutti ricchi!
Se non abbiamo a disposizione abbastanza cercatori in loco possiamo sempre assumere cercatori professionisti da altri paesi aumentando così la nostra squadra. Tuttavia non basta semplicemente avere molti cercatori d’oro per trovare l’oro ma bisogna che questi siano attivamente impegnati sul campo a cercare oro.
In questo esempio il filone d’oro è l’innovazione tecnologica, una volta trovato inizierà a fruttare molti soldi e i cercatori d’oro sono i nostri “prospectors” ovvero i ricercatori che lavorano per trovare l’oro. È certamente una metafora semplicistica che non coglie tutte le complicate sfumature del problema ma ha il pregio di essere molto vivace e esplicativa e quindi semplice da comprendere.
Italia, innovazione e crescita economica
Dopo questa digressione sulla teoria, veniamo alle note dolenti: che cosa ci dice questo modello del sistema economico italiano? Parecchio ma vi devo avvertire che non sono buone notizie.
Il sistema produttivo del nostro paese presenta diverse criticità a cominciare dall’insufficiente (a voler essere gentili) investimento in tecnologia (lo dico per gli imprenditori che leggono: no, acquistare auto di lusso per sé non conta come investimento in tecnologia).
Una misura piuttosto pratica di questa tendenza ce la danno gli investimenti in infrastruttura informatica e quelli delle imprese del nostro paese sono tra i più bassi dell’eurozona e sicuramente non all’altezza dei nostri partner internazionali.
L’informatica è una delle tecnologie le cui applicazioni stanno aumentando la produttività in praticamente tutti i settori economici. La produttività non e` un numero astratto, essa misura la frazione di ricchezza (GDP) prodotta in media da un lavoratore in un’ora di lavoro. Questa quantità misura quanto efficiente e` un sistema produttivo e non necessariamente le capacità dei singoli lavoratori, in quanto la produttività dipende in gran parte dalla presenza di investimenti (capitale), infrastrutture e tecnologia.
Il grafico mostra come l’Italia sia rimasta fondamentalmente indietro rispetto al resto dei paesi industrializzati per quanto riguarda la produttività. Chiaramente la mancanza di investimenti in innovazione tecnologica (come l’informatica) è uno dei motivi dell’enorme gap di produttività tra paesi come Francia e Germania e il nostro paese.
La riserva di capitale umano
Il capitale umano e` la quantità di “talenti” su cui un sistema economico può contare (ingegneri, ricercatori, ecc.). Come misura di questo parametro possiamo confidentemente prendere la percentuale di laureati nella popolazione attiva: chi consegue una laurea è stato preparato ad innovare e rappresenta quindi una naturale fonte di “talenti” utili per la ricerca e l’innovazione.
Anche da questo punto di vista l’Italia occupa una posizione molto svantaggiata in Europa e in generale tra i paesi industrializzati, con un livello di investimento in educazione molto più basso dei suoi vicini.
Numero di “prospectors” attivi
Perché un “talento” possa produrre innovazione, Romer ci dice che è necessario che questo sia attivamente impegnato in ricerca e sviluppo e non invece, per esempio, a guidare un taxi. Non c’è nulla di male a fare il tassista, sia chiaro, ma in questo modo un ricercatore non sarebbe di alcun peso nel processo di innovazione perché impegnato a guidare il suo taxi.
Abbiamo misurato questo aspetto del nostro sistema economico contando il numero di lavoratori attivamente impegnati in ricerca ogni 10 mila lavoratori. Nell’eurozona il nostro paese occupa una delle ultime posizioni nonostante la sua ricchezza e produzione industriale, seguito solo da Lettonia e Romania. L’Italia impiega circa metà dei ricercatori dei suoi partner/competitori (come per esempio la Germania): così facendo rischia di perdere importanti occasioni di sfruttare le ultime scoperte scientifiche per cavalcare la prossima “ondata” tecnologica (com’è successo con la rivoluzione informatica) pregiudicando la possibilità di una solida crescita economica.
Un’idea di quanto il nostro paese non sia in grado di reggere il confronto con gli altri paesi industrializzati sul fronte dell’innovazione ce la dà il dato sulle domande di brevetto presentate dal nostro paese: anche su questo fronte c’è poco da stare allegri, il Bel Paese sembra essere anni luce distante dal resto dei suoi partner industriali.
Attrarre talenti
Ok, non produciamo abbastanza “talenti” per sostenere il nostro sistema economico ma possiamo sempre “importarne” da fuori, soprattutto ora che la comunità europea consente la libera circolazione delle persone tra paesi dell’Unione. Purtroppo anche su questo fronte l’Italia sembra meno capace dei suoi vicini nel richiamare “talenti” da altri paesi per lavorare nel suo sistema produttivo e creare innovazione e crescita economica. Abbiamo utilizzato il rapporto tra migranti permanenti (visto di lavoro) e migranti che usufruiscono della libera circolazione per cercare di catturare la frazione di “skilled workers” che un sistema economico e` in grado di attrarre. Anche se non e` una statistica perfetta ci dà una buona idea della capacità di un sistema economico di attrarre talenti dai paesi vicini.
Ma allora la storia del creare posti e ridurre le tasse per stimolare la crescita?
È sufficiente fare il confronto con il resto dei nostri partner europei per capire che in questa narrazione qualcosa non quadra. La tassazione sul lavoro dipendente è decisamente in linea con quella di altri paesi industrializzati con uno stato sociale importante; è molto poco probabile, che sia questa, dunque, la causa delle disparità tra l’Italia e altri paesi come Germania e Francia.
È palese inoltre che non basti scrivere “più posti di lavoro” in una legge per creare posti di lavoro e crescita economica ma che ci vogliano invece misure solide e serie, che però hanno il difetto di avere un orizzonte a medio e lungo termine che sembra incompatibile con l’inconsistenza della politica moderna. Già riforme ad alto contenuto “propagandistico” come il Jobs act, confezionate per impressionare nell’immediato, hanno mostrato tutti i loro limiti proprio sul medio-lungo periodo.
Approcciando il punto di non ritorno
Quello che abbiamo dipinto è un quadro abbastanza deprimente della situazione politico-economica del nostro paese che non si distanzia più di tanto da quella, altrettanto impietosa, pubblicata su Lancet la scorsa settimana a proposito dello sfascio del Sistema Sanitario.
Del rapporto tra le istituzioni politiche e la scienza ne abbiamo già parlato in passato. In questo articolo abbiamo cercato di riassumere alcune osservazioni sullo stato reale dell’economia italiana, al di là delle diatribe di partito, corredandole di dati reali. Ça va sans dire, il danno, se così vogliamo definirlo, non è stato fatto da un giorno all’altro; esso è il frutto dalle politiche degli ultimi decenni, certo, ma anche (e forse soprattutto) da una classe (im)prenditoriale ingorda, interessata soltanto al guadagno immediato che ha trascurato vitali investimenti in talento, competenza, tecnologia e innovazione. Non sarà facile rimediare ai danni fatti, specie perché la situazione peggiora ulteriormente di anno in anno, grazie ad una totale immobilità politica che contraddistingue questi anni.
Ci teniamo a specificare che quando parliamo di politica intendiamo in primo luogo dei reali attori della scena politica cioè gli elettori, disabituati a cercare una visione d’insieme e disinteressati al futuro.
Matteo Bonas
Bibliografia
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“Ma il Jobs Act non doveva mettere fine al precariato?” Econopoly, Il Sole 24 Ore (2017)
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