Il Sudafrica non sembra più invincibile come quella nazionale che nel 1995 ha vinto il mondiale e battuta l’apartheid. Ancora una vittima degli Springboks di quell’anno
Non sembrano più invincibili gli Springboks del 1995, di quella coppa del Mondo vinta da una nazionale che stava per mettere (o doveva) fine ad una delle pagine più nere della sua storia, quella dell’apartheid.
La scomparsa prematura di Chester Williams, “The Black Pearl“, lo scorso 6 settembre a soli 49 anni, ha fatto il giro del mondo e commosso tutti gli appassionati di sport ma riapre anche molti dubbi su quei ragazzi che hanno ispirato e fatto innamorare di questo sport generazioni intere.
Chester Williams è solo l’ultimo dei springboks scomparso prematuramente, raggiungendo nel paradiso ovale i suoi ex compagni di quella coppa del Mondo 1995. Già James Small scomparso lo scorso 10 luglio 2019 all’età di 50 anni, Ruben Kruger scomparso nel 2010 a soli 40 anni per un tumore al cervello e Joost van der Westhuizen morto a 46 anni nel 2017 dopo una lunga lotta contro la SLA.
Tutti scomparsi troppo presto, lasciando un vuoto incolmabile per quelli che hanno seguito le loro gesta, si sono innamorati delle loro giocate e che hanno fatto sognare a intere generazioni un futuro migliore, senza pregiudizi razziali. Una storia che ha ispirato il film di Clint Eastwood “Invictus”.
Delle morti che non lasciano solo un vuoto ma anche dubbi, ai quali non vorremmo lasciar spazio e rimanere solleticati da quelle immagini e dai ricordi di quelle bellissime giornate e di quell’abbraccio tra il capitano Francois Pieenar ed il Presidente del Sudafrica Nelson Mandela.
L’inchiesta e i dubbi sugli springboks di Invictus
Già nel 2014 un’inchiesta di France 2 e del reporter Nicolas Geay dopo un intervista ad alcuni dei membri della nazionale sudafricana aveva sollevato alcuni dubbi sull’utilizzo del doping da parte dei giocatori.
L’attenzione si era fermata proprio su Van Der Westuizen e Tinus Linee, entrambi malati di SLA e Andrè Venter colpito da mielite trasversa, una malattia rarissima degenerativa che colpisce il sistema nervoso centrale.
Questi giocatori avevano militato durante la metà degli anni ’90 con la nazionale del Sudafrica. La domanda sorge quindi spontanea. Come è possibile che molti di quei giocatori successivamente hanno subito problemi di salute?
Dobbiamo fare qualche passo indietro e parlare del rugby che veniva giocato in quegli anni. Uno sport che ancora non era dichiarato come professionismo, nonostante il movimento era in continua crescita e da lì a poco si sarebbe fatto il passo che ha rivoluzionato per sempre il mondo del Rugby.
I giocatori giocavano a rugby ma spesso si alternavano con altri lavori e quando riuscivano a raggiungere questi livelli spesso era un grande onore per loro ma anche un impegno continuo e pesante che provocava loro uno sforzo incessante.
Allo stesso tempo l’utilizzo delle sostanze dopanti non era regolamentato come ai giorni nostri e ancora no si conoscevano bene le conseguenze che avrebbero portato questi trattamenti.
Le parole di Pieenar
Alcune affermazioni di Pienaar rilasciate sempre all’operatore francese Nicolas Geay che dichiara di fare uso di pillole B12, a volte anche tramite in iniezioni e di aver fatto più volte test anti-doping senza mai risultare positivo.
Vitamine che servivano ai giocatori per aumentare le proprie energie e mantenere alto il livello delle loro prestazioni. A volte la sostanza B12 veniva utilizzata per rafforzare l’efficacia dell’EPO e, in quel periodo l’eritopoietina non si riusciva ancora a rilevare nelle analisi anti-doping.
Cosi le parole di Francois Pieenar riappaiono come un fulmine a ciel sereno su quella “nazionale che ha vinto la coppa del Mondo 1995.”
Un sogno chiamato Invictus
Cosi quel 1995 è passato alla storia per essere l’anno del Sudafrica, di Mandela e della fine dell’apartheid con la vittoria di quel mondiale e del Jumbo Jet su Ellis Park.
Un altro fenomeno di quegli anni, Chester Williams, se ne è andato, un altro Invictus che ha lasciato intorno a se un vuoto incolmabile raggiungendo i suoi compagni.
Ragazzi campioni scomparsi prematuramente per malattie che hanno fatto alzare più di qualche dubbio e storcere il naso a qualcuno. Perché quello era il 1995, l’anno di Nelson Mandela, della fine dell’apartheid e del mondiale giocato in casa e perchè il Sudafrica poteva, anzi doveva dimostrare al mondo di essere più forte dei pregiudizi e delle difficoltà che aveva dilaniato il paese per anni. Rendere cosi manifesto al mondo il proprio cambiamento.
Se questo di cui adesso discutiamo è realtà o semplice immaginazione non lo sapremo mai ma continuiamo a mantenere vivo il sogno che lo sport può abbatere in modo del tutto naturale ogni barriera e ogni pregiudizio.