Per gli Ottant’anni del Cavaliere oscuro, sulla bocca di tutti c’è la sua nemesi per eccellenza: il Joker. Si è già scritto di tutto su questo e su altri lidi del film di Todd Philips, pertanto, per dirla à la Fellini, oggi saremo un po’ amarcord e andremo a ripescare una delle storie più significative del crociato incappucciato. “Anno Uno”, l’opera di Frank Miller e David Mazzucchelli che riscrisse le origini dell’uomo-pipistrello
Era il 1986 quando “Crisi sulle Terre Infinite” terminò. Nata come tentativo di mettere ordine all’interno di quell’elefantiaca continuità che si sviluppò in casa DC durante la cosiddetta Silver Age, giunta al decimo numero, il suo autore Marv Wolfman propose ai capoccia della casa newyorchese di uccidere tutti i suoi eroi portabandiera, in modo da ricreare una continuità tutta nuova con gli stessi personaggi, ripartendo da uno zero assoluto.
L’idea fu abbandonata perché troppo «audace» e, così, nei successivi anni, dopo la fine di “Crisis” e della cosiddetta Bronze Age, si assistette alla nascita della Modern Age. Il tutto nacque con “Man of Steel”, riscrittura delle origini di Superman ad opera di John Byrne (autore completo che si avvalse delle chine di Dick Giordano), uscito sempre nel ’86. Pertanto, dopo aver raccontato le nuove origini dell’uomo d’acciaio, fu la volta di Batman.
E qui iniziarono a palesarsi i problemi.
Per prima cosa, dopo gli anni Cinquanta e le storie «pop» di Dick Sprang, l’uomo-pipistrello parve il più danneggiato dal Comics Code, e, senza dubbio, la storica serie televisiva con Adam West e Burt Ward non fece altro che dissolvere totalmente il ricordo del temibile Batman delle origini – che riusciva a risultare inquietante persino con quegli improbabili guanti viola –.
Riscrivere Batman e renderlo diverso agli occhi del grande pubblico era stata una delle prerogative fondamentali della Silver Age, con autori quali Dennis O’Neil, Carmine Infantino e il sempiterno Neal Adams. Fu quella una delle ragioni per le quali Batman ci impiegò undici anni a finire sul grande schermo rispetto al suo collega di Metropolis. Pertanto, in un contesto del genere, la scrittura noir di Miller, applicata a un vecchio Bruce Wayne indurito dagli anni, rese “Il Ritorno del Cavaliere Oscuro” un vero e proprio «ritorno» in tutti i sensi; il ritorno del Batman cupo delle origini. Dopo l’omega del Crociato Incappucciato, la DC decise di affidare sempre a Miller la scrittura dell’alfa.
L’autore del Maryland, come fece un anno prima su “Devil: Rinascita”, si avvalse delle pregevoli matite di David Mazzucchelli il quale, per questa nuova saga, realizzò delle tavole distanti anni luce da quelle viste per lo scavezzacollo di rosso vestito. E non sarebbe stata neppure l’ultima volta che il disegnatore di Providence si sarebbe reinventato (ricordiamo i più recenti “Città di Vetro” e il magnifico “Asterios Polyp”).
Ma cosa fece Miller per riscrivere le origini dell’uomo-pipistrello?
Beh, in buona sostanza, le reinventò di sana pianta. Ringiovanì il commissario Gordon – ora un semplice tenente spedito via da Chicago giacché troppo pulito in un dipartimento corrotto –, e lo rese protagonista. La sua narrazione su degli stralci giallini è senza dubbio più presente di quella del venticinquenne Bruce Wayne ritornato a Gotham dopo anni di addestramento in giro per il mondo. Gordon è un uomo incorruttibile, quasi un cavaliere d’altri tempi; la persona perfetta per poter cadere nel tranello più effimero – e ricattabile – di tutti: l’amore.
Dagli atti di romanticismo visti con l’incinta moglie Barbara, Jim comincia a frequentare di nascosto la collega teutonica Sarah Essen. Gordon è un uomo. Un giusto ma pur sempre un uomo. Nulla di più poetico per un personaggio che, sino ad allora, era rimasto semplicemente un contorno all’interno delle storie di Batman.
E lo stesso vale per Bruce/Batman.
Inesperto e fortunato all’inizio, quando, in ricognizione presso l’East End di Gotham, rischia di essere arrestato e di morire dissanguato per lo sparo di un poliziotto. Impaurito dalla grandezza della missione che gli si sta ponendo davanti, e che senza quel pipistrello che sfonda la finestra dello studio, probabilmente non sarebbe stato in grado di intraprendere.
Batman nasce dai timori di Bruce; nasce da un uomo che vorrebbe essere un eroe senza macchia e senza paura ma che, come Gordon, si rende conto di esser pieno di timori, di rimpianti, di debolezze… di essere anche lui un essere umano; un patetico essere umano. È questo il pregio di “Anno Uno”.
Lo stesso de “Il Ritorno del Cavaliere Oscuro”: le indecisioni, il proprio vissuto, la propria essenza umana. Frank Miller riprende a piene mani quello che Bill Finger e Bob Kane avevano accennato e ci tesse sopra la propria storia. Batman è un uomo dietro alla sua maschera. Ed è vero, con quella fa paura, e ne sa qualcosa il boss Carmine Falcone, il “Romano”. Senza alcun dubbio il personaggio di contorno più forte dell’intera storia. Poche battute, ma perfette per caratterizzare un personaggio di cui Jeph Loeb scriverà una perfetta esegesi ne “Il Lungo Halloween”.
A conti fatti, il suo piano per punire Gordon, ossia rubare il proprio figlioletto neonato, viene impedito da un Bruce sprovvisto di maschera. È qui che l’importanza dei due protagonisti della storia trova compimento. Batman dice «di giorno mai», riferito alla propria maschera. È l’artificio narrativo perfetto per raccontare l’inizio delle collaborazioni tra Gordon e Bruce/Batman.
Sì, può risultare un po’ difficile da comprendere, com’è che nessuno si sia accorto che alla guida di quella bici ci fosse proprio Bruce Wayne, ma non è importante ai fini del poetico finale, dopo che un «praticamente cieco» Gordon ringrazia quell’uomo che non riconosce ma che, in una scena non mostrata, gli si rivelerà essere proprio Batman.
Bruce Wayne è l’eroe della doppia identità. Quello che Barbara, moglie di Gordon, definisce «un porco» è il playboy che si gode i suoi miliardi; quello che agisce come Batman è sempre lui, e lo fa indifferentemente dalla maschera e dal mantello. Ha superato quelle sue paure. È riuscito a scavalcare le sue iniziali remore in tutto. Batman diventa un veicolo della forza che Bruce sapeva di possedere dentro di sé.
E poco importa se il sostituto del corrottissimo commissario Gill Loeb, Grogan, è pure peggio; poco importa se Falcone sarà in libertà sino all’arrivo del serial killer Festa. Tutti avevano troppo da fare per impedire la promozione a capitano di Gordon, così come avevano troppo da fare per impedire la sua alleanza con Batman, in quel tre dicembre innevato dove il neo-capitano gli consegnerà il simbolo del Joker.
“Anno Uno” è un capolavoro per questo e per tante altre ragioni. Scava nella psiche degli uomini dietro alle maschere. Le apparizioni di Catwoman sono gestite col contagocce. Serve che i giornali parlino di Batman per spingere la mistress Selina a indossare il costume del gatto per appropriarsi di gioielli e preziosi. Ottimo preludio a quanto dirà Gordon ne “Il Lungo Halloween”, dove rimuginerà sul perché la città si sia popolata di freak solo dopo l’arrivo di Batman.
E di lei, Jeph Loeb e Tim Sale scriveranno parecchio nella sopracitata saga, in “Vittoria Oscura” e in “Vacanze Romane”. Qui, però, la possiamo già vedere sopra l’attico di Falcone, frattanto che costui organizza il piano ai danni di Gordon, impaurito dall’incalzante colpo di coda della legge; perché Selina è sempre dalle parti di Falcone? Loeb e Sale ce lo hanno raccontato in modo perfetto, ma a Miller è bastata una sola scena per metterci la pulce nell’orecchio.
E, parlando di colpo di coda della legge, bastano solo tre apparizioni della faccia onesta di Harvey Dent per mostrarcelo nel ruolo ideale per questa miniserie. Dent non è ancora Due Facce qui, e ci vorrà del tempo prima che lo diventi, ma non importa, perché il lettore lo sa già, e la sua presenza non può non essere una chicca. Nel lungometraggio del 1989, il suo personaggio appare nella stessa veste di procuratore distrettuale incorruttibile senza mai dare l’impressione di divenire il futuro Due Facce, citando evidentemente il modo in cui Miller lo avesse centellinato due anni prima.
E come non parlare del detective Flass? Ripreso da Chris Nolan per “Batman Begins” – opera che, si sa, riprende molto da “Anno Uno” -. Flass è fanfarone, lercio sino al midollo ma, a detta di Gordon, più intelligente di tutti gli altri, tanto da essere l’ago della bilancia per metterli dietro le sbarre. Come non parlare poi di Jefferson Skeevers? Il trafficante afroamericano che viene impaurito da Batman. Lui, terrorizzato, va da Gordon per costituirsi; fine simile a quella di Falcone che viene sfregiato da Selina/Catwoman. Due fini dipartite simboliche. Entrambi, quasi, fungono da tedofori; passano la torcia a una nuova genia di super-criminali che li rimpiazzeranno.
“Anno Uno” è tutto ciò che dovrebbe rappresentare Batman: un mondo marcio, corrotto, dove un essere umano qualsiasi, capace di convivere con le proprie paure, si fa carico di tutto e diviene un simbolo per tutti, nel bene e nel male.
“Anno Uno”¸ più de “Il Ritorno del Cavaliere Oscuro”¸ rappresenta il vero Batman, giacché, a differenza di quest’ultima storia, “Anno Uno” non pone le sue basi su una continuità precedente, ma la imbastisce daccapo, disintegrando l’aura da semidio di cui era cosparso Batman, tramutandolo in una persona comune, priva di una qualsivoglia ambizione supereroistica come la si intendeva un tempo.
Batman non appartiene più, nemmeno per analogia al concetto di superuomo di Emerson, ossia un individuo capace di salvare il Mondo grazie a dei poteri soprannaturali; Batman è finalmente l’oltreuomo nietzscheano, capace di superare la condizione umana di cui fa parte, accettandola e facendosene carico.
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