L.A. Confidential, ovvero quando il noir si trasforma in vita quotidiana. Senza una ragione specifica, riviviamo quello che è uno dei film noir più significativi degli ultimi trent’anni.

Dopo “Il Falcone Maltese” di Dashiell Hammett, capostipite del genere hard-boiled ambientato a San Francisco, la città che divenne ben presto sinonimo di noir fu Los Angeles. In un’analisi sociologica, osservare la città delle celebrità con un occhio più critico, tirando fuori dall’armadio tutti gli scheletri che nascondeva, pareva a tutti gli effetti una normale conseguenza di quella che, per molti, all’epoca, rappresentava la meta dove i sogni divenivano realtà. In settant’anni di hard-boiled, Los Angeles è stata rappresentata nelle versioni più disparate, e, benché negli anni Novanta si pensava al genere come a qualcosa di logoro, Curtis Hanson, preso in mano un romanzo capolavoro di James Ellroy, decise che era il momento di un ultimo grande tuffo nei retrobottega della città degli angeli. Fu così che “L.A. Confidential” vide il buio delle sale.

L.A. Confidential
Photo Credit: WEB

C’è da precisare come lo stesso Ellroy, ripescando dagli hard-boiled del passato, era riuscito a tracciare una linea narrativa che raccontava la metropoli californiana tra il 1947, l’anno del famigerato ritrovamento di Elizabeth Short – la Dalia Nera -, e il 1958, ossia gli ultimi sussulti della cosca criminale di Mickey Cohen. I romanzi della quadrilogia losangelina, “Dalia Nera”, “Il Grande Nulla”, “L.A. Confidential” e “White Jazz”, rinverdendo il genere trattato, si adornavano con una veste inedita per quella narrativa: il quotidiano. Ellroy, influenzato da autori suoi coevi quali Roth, Pynchon o DeLillo, si era assunto di raccontare le vite dei protagonisti prima ancora delle storie di cui essi facevano parte. Invece di utilizzare il solito schema giallista della risoluzione finale, Ellroy costruiva i propri personaggi lungo l’arco narrativo del libro, portando a compimento le varie sottotrame insieme a quella principale. Ne è un esempio la storia di Ed Exley, sempre ansioso di dimostrare di essere valoroso quanto suo padre Preston, descritto come un eroe nel romanzo.

Hanson, spinto dalla necessità di rendere cinematografico un romanzo pregno di personaggi e di snodi narrativi, tagliò diverse figure secondarie, riscrivendo alcune parti in toto, riducendo lo svolgimento dell’intera opera a una manciata di mesi, a fronte dei sette anni affrontati da Ellroy nello scritto. Tuttavia, benché diversi caratteri siano rielaborati o stravolti – come Jack Vincennes, uno dei protagonisti -, il corpus principale del film segue l’evento della strage al Nite Owl come miccia utile a mostrare tutti gli intrighi sotterranei che affastellano Los Angeles. Una strage senza un movente preciso, un poliziotto ambizioso, un antieroe senza un futuro, un corrotto redentosi, un poliziotto spietato, una dama con un passato e della stampa sensazionalista: gli ingredienti per raccontare una storia che possa scaturire da due eventi scandalistici ci sono tutti.

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Ma, come si conviene in questi casi, a farla da padrone è anche il cast. Guy Pearce nei panni di un occhialuto Ed Exley è perfetto in quel suo dissidio interiore, così come lo statuario Russel Crowe, interprete del duro e silenzioso Bud White, un perfetto antieroe che scopre chi e come lo stia manipolando. Kevin Spacey, all’epoca già interprete del serial killer John Doe in “Seven” e dello strambo Verbal Kint, poi scopertosi il terribile Keiser Soze in “I Soliti Sospetti”, risultava già all’epoca inusuale nei panni di un personaggio positivo, benché mantenesse la sua ambiguità per tutto il film; tuttavia, la palma per la migliore interpretazione spetta sicuramente a lui: Jack Vincennes, corrotto, problematico ma spinto da un suo senso di giustizia, è sicuramente il personaggio più intrigante dell’opera. Kim Basinger, maliarda e voluttuosa, nei panni di Lynn Bracken è la perfetta femme fatale o dark lady. Danny DeVito è un trasformista, e vederlo nei panni del logorroico e poco affidabile giornalista Sid Hudgeons, è la conferma della sua strabiliante dote. Infine James Cromwell, spietato e privo di emozioni nell’atto di uccidere le stesse persone a cui si era proposto di fare da “papà” con un irritante sorriso diplomatico.

La complessità della trama, avendo come colonna portante il tentativo di diversi gangster di soppiantare l’ebreo Mickey Cohen, ora carcerato, si fonda, come detto, su due scandali giornalistici che coinvolgono la polizia, tuttavia, una delle rappresentazioni più crude che emergono inerisce proprio il giro di prostitute del magnaccia Pierce Patchett, il quale, grazie a opportune operazioni di chirurgia estetica, camuffa le proprie squillo come le dive del cinema. Lynn (Kim Basinger), per esempio, viene proposta come sosia perfetta di Veroinica Lake, ed è grazie ala morte di una ragazza truccata come Rita Hayworth che Bud White viene a conoscenza del giro di Patchett.

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E’ da questo scenario che si mostra la voce narrante di Ellroy ed Hanson: la celebrità vista come posticcia; politici e poliziotti, in qualità di esseri umani qualunque, finiscono per accontentarsi di squillo prese dalla strada solo per delle somiglianze artificiali con le star del cinema. Ellroy racconta così la bruttura dell’umano. L’altra faccia della vanagloria è quella di un gruppo di prostitute che soddisfano la disperazione di coloro che idolatrano Hollywood ma che non saprebbero come conquistarla.

“Tutti fanno sesso con Veronica Lake, io con Lynn Bracken”, dice Bud White innamoratosi della donna che si nasconde dietro quella maschera. Il rude e forse non troppo acuto ispettore, sotto certi aspetti, rappresenta la purezza vera e propria: quella di una persona che, nel profondo, crede ancora al bene, laddove il sin troppo idealista Ed Exley, invece, è cascato perché incapace di frenare i desideri carnali di fronte alle sue alte ambizioni. Exley si fa corrompere dalla donna proprio perché, nel profondo, sa di non poter resistere. Colui che pareva il più retto, finisce per accettare accordi sporchi, come nel finale, quando accetta di dare la colpa al solo Dudley Smith (Cromwell), ormai defunto, pur di veder salvaguardata la sua posizione da capo dell’investigativa.

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In un contesto così surreale come quello delle prostitute mascherate da star del cinema, pertanto, risulta spontaneo che Ed scambi per una squillo la vera Lana Turner, all’epoca realmente impegnata in una relazione con il gangster Johnny Stompanato. In questa breve e ironica scena sta tutto il senso dell’intera vicenda. La gloria, la celebrità, la fama, l’ambizione… è facile confonderle quando il loro confine appare tanto labile. Exley avrebbe voluto essere parimenti se non di più a suo padre, ma si rende conto di come tale viaggio non sia così lineare come pensava, sia per via del temibile Dudley Smith, sia perché egli stesso si rende conto di dover imboccare diverse deviazioni lungo il cammino.

Emblematica è l’ultima istantanea di Bud White: il volto più puro, l’antieroe spinto da un idealismo più puro e personale, si ritrova con le ossa rotte, con gessi e fasciature dappertutto e senza la possibilità di parlare, seduto sul sedile posteriore di un’auto che guiderà proprio Lynn, la donna che lui è riuscito a portare via dalla perdizione. Il volto della purezza, dell’ingenuità, trasportato a fatica via da una Città che non lo vuole più, e che ha preferito ristabilire uno status quo non dissimile dal precedente al fine di non dare in pasto se stessa alla stampa.

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Una fotografia amara per un finale che, a tutti gli effetti, ci consegna quello che l’hard-boiled non era mai riuscito a restituirci: la realtà. La gente preferisce la menzogna, la finzione, i distintivi da televisione e gli arresti da copertina; non è pronta e mai lo sarà ad accettare tutto il marcio che si nasconde dietro a tutto ciò. Un finale aperto, reale, crudo e giusto nella sua ingiustizia.

MANUEL DI MAGGIO

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