Anniversario della nascita dell’autore statunitense Tennessee Williams. Drammaturgia graffiante e personaggi resi immortali da Brando, Newman & co.
Malinconico e mordace, come i drammi che scrive e che scoprono un’America diversa da quella che la gente si immagina, soprattutto fra le mura domestiche. Tennessee Williams nasce il 26 marzo 1911 nel Mississippi, il profondo sud delle atmosfere torbide e afose.
Intuitivo, omosessuale e insofferente del clima puritano che respira in famiglia, dopo l’università, inizia a scrivere ispirandosi a Cechov e al suo realismo.
Anche lui, come l’autore russo, probabilmente, pensa che sia ormai il tempo di portare l’uomo in scena così com’è, sfrondato dalle suggestioni eroiche o dal carico paternalistico del teatro più tradizionale.
E’ il periodo tra le due guerre, in cui l’America si scopre forte ma piena di contraddizioni, potente ma ingenua nella sua sconfinata fiducia nell’uomo capace di costruirsi da sé la felicità, nel suo culto della famiglia e della nazione.
L’America che Williams porta in scena è, al contrario, quella degli individui irrisolti, che nella famiglia ci stanno come tessere di un mosaico male assortito. Nevrotici e delusi, incapaci di guarire dalle ferite e soprattutto incapaci di sacrificarsi. Dopo l’esordio della commedia Cairo, Shangai, Bombay del 1938, Williams si trasferisce a Memphis, dove va in scena con I blues e poi a New York.
E’ Lo zoo di vetro rappresentato del 1944 al Civic Theatre di Chicago, l’opera che fa la differenza e mette in luce il talento del giovane drammaturgo del sud. Il dramma si svolge a Sant Louis, in un’interno domestico dove si trova la collezione di piccoli animali in vetro di Laura, la ragazza claudicante e sola, circondata da una madre in cerca di riscatto sociale e da uno sciagurato fratello che passa il tempo al cinema.
E’ la vittima di un’ orchestrazione familiare maldestra e meschina, da cui però esce incontaminata, con la sua generosità, regalando l’unicorno spezzato al ragazzo che l’ha appena presa in giro.
Ma le due opere più acclamate sono senz’altro Un tram che si chiama desiderio del 1947e La gatta sul tetto che scotta del 1954, entrambi premio Pulitzer per la drammaturgia e trasposti con successo nella versione cinematografica.
Malattia mentale, devianze sessuali, alcolismo, sullo sfondo di vite in cui le cose non sono andate bene e non si ha la forza di accettarlo. Blanche, protagonista di Un tram che si chiama desiderio arriva in casa della sorella, credendo ancora di potercela fare.
Dopo il fallimento del matrimonio con un ragazzo più giovane scoperto in flagrante con un altro. Dopo la sua casa pignorata per debiti. Arriva nell’appartamento di New Orleans come regina in esilio. L’incontro-scontro con il cognato Stanley è l’anticamera della tragedia a cui va incontro.
Lo spettatore deve solo aspettare che tutto si compia in un’ inevitabile escalation di recriminazioni e insofferenze reciproche. Quando il dottore e l’infermiera vengono a prendere questa bimba non cresciuta per portarla in un ospedale psichiatrico, si potrebbe tirare un sospiro di sollievo per una famiglia che può finalmente ricominciare (Stella, sorella di Blanche, è incinta). Ma l’atmosfera rimane fredda e opaca.
Elia Kazan dirige l’opera al debutto all’Ethel Barrymore Theatre di Broadway con Marlon Brando perfettamente calato nella parte del rozzo (ma bellissimo!) Stanley Kowalsky e Jessica Tandy in quello di Blanche DuBois. L’opera, considerata un capolavoro del teatro contemporaneo, è stata osannata altrettanto al cinema. Merito sempre di Elia Kazan che nel 1951 dirige il film con lo stesso cast di attori, sostituendo però Vivien Leigh a Jessica Tandy.
Altra scena, altro interno. Siamo nella camera da letto della coppia Brick e Maggie. E’ lei La gatta sul tetto che scotta, sposata infelicemente a un uomo alcolizzato e innamorato del suo migliore amico morto anni prima. E col quale lei stessa ha avuto una breve relazione.
Sopra di loro, nella grande tenuta terriera del Sud, troneggia l’anziano suocero ormai alla fine per un tumore al colon. Il Big Daddy, che incarna la granitica forza delle radici familiari, del rispetto dei ruoli e delle tradizioni, che ha condizionato e condiziona le loro vite.
Reclama un erede che non arriva, inconsapevole della situazione che i due stanno vivendo. Mentre i cognati di Maggie scalpitano per ereditare al posto loro. Intrighi, bugie e disperazione, in una lotta impari, per l’epoca, tra libertà individuali e rispetto delle convenzioni e della morale. Oltre che per attaccamento al denaro e, nel caso di Meggie, dello status quo acquisito.
Cat on a Hot Tin Roof, in scena per la prima volta al Morosco Theatre di Broadway, a New York, nel gennaio del 1955, ha ripetuto lo stesso successo di pubblico, con Barbara Bel Geddes (Maggie) e Ben Gazzara (Bricks).
Nella versione cinematografica le parti sono affidate agli indimenticabili Elisabeth Taylor e Paul Newman, per la regia di Richard Brooks nel 1958.
Tra le versioni teatrali italiane di Un tram che si chiama desiderio ricordiamo quella diretta da Pier Luigi Pizzi. Interpretata da Mariangela D’Abbraccio e Daniele Pecci al Teatro Quirino è andata in scena fino ai primi di marzo.
Anna Cavallo