Sanità regionale contro medici di famiglia: il conflitto che ha peggiorato le cose

In una regione come la Lombardia, il cui sistema sanitario è stato ampiamente privatizzato, i medici di famiglia si sono trovati (e si trovano tuttora) in grande difficoltà per via dell’emergenza COVID-19. La mancanza di risorse, la scarsa collaborazione e l’assenza di linee guida tempestive hanno aggravato la situazione.

La privatizzazione

A partire dagli anni ’90 del secolo scorso, la Lombardia è stata teatro di una trasformazione radicale del sistema sanitario attraverso il processo di privatizzazione, avvenuto tra proteste e scandali che coinvolsero non solo imprenditori, ma anche politici e dirigenti (primo fra tutti, l’arresto nel 2016 dell’ex presidente della regione Roberto Formigoni con l’accusa di corruzione). I risultati di questa metamorfosi sono tutt’altro che positivi. Lo scopo dei privati è il guadagno e ciò li ha portati a investire nella così detta medicina di eccellenza, quella che si occupa di visite specialistiche e operazioni chirurgiche delicate. Pertanto, nonostante oggi circa la metà della sanità lombarda sia privata e operi in gran parte per convenzione con il pubblico, a essa appartiene poco più di un quarto dei posti di terapia intensiva presenti sul territorio.

Fonte: publicdomainpictures.net

Assistenza territoriale all’insegna della trascuratezza

Se da una parte la sanità regionale lombarda ha raggiunto l’eccellenza per ciò che concerne le grandi strutture ospedaliere e i servizi altamente specializzati, dall’altra l’assistenza territoriale è stata abbandonata. Non c’è quindi da stupirsi se nella regione mancano ben 600 medici di medicina generale e quasi 40.000 ore di guardia medica, come evidenziato dagli ultimi dati dello scorso marzo. Critica è la situazione a Bergamo, dove a ogni medico di famiglia sono assegnati 1600 pazienti, 300 in più rispetto alla media regionale. Alla carenza di personale si aggiunge l’insufficienza di risorse, dai dispositivi di protezione ai tamponi.

Fonte: torange.biz

Una nave senza nocchiere in gran tempesta

Confusione, contraddizioni, assenza di linee guida per segnalare e trattare i casi sospetti. In queste condizioni i medici di famiglia hanno fatto del loro meglio per assolvere al proprio dovere, quello di presidiare il territorio, di porsi come intermediari tra popolazione e sistema sanitario. Hanno continuato a visitare i rispettivi pazienti, senza che la Regione Lombardia mettesse a loro disposizione anche solo una minima parte delle scorte di dispositivi di protezione, tutti destinati al personale ospedaliero. All’assenza di supporti concreti si aggiunge anche la quasi totale mancanza di comunicazione: svariati medici hanno dichiarato di aver saputo della positività di alcuni pazienti da parenti degli stessi e ancora alla fine di aprile risultava impossibile richiedere un tampone. Dei 150 medici che hanno perso la vita durante l’epidemia, circa la metà è rappresentata da medici di famiglia.

Fonte: publicdomainpictures.net

Il conflitto tra sanità regionale e medici di famiglia

I rapporti tra sanità regionale e medici di famiglia erano e continuano ad essere pessimi. La faida sarebbe sorta in seguito a ripetuti tentativi da parte della Regione di sottrarre loro risorse e competenze o ancora di trasformare la figura del medico di base in dipendente della sanità regionale; il tutto si scontra fortemente con il desiderio dei medici di medicina generale di tutelare la propria indipendenza di professionisti autonomi con contratti ampiamente regolati a livello nazionale. Pur essendo questo un problema diffuso anche in altre regioni, nessuno sta incontrando le difficoltà della Lombardia. Lo hanno sottolineato, ad esempio, gli amministratori di Veneto ed Emilia Romagna, spiegando come una maggiore integrazione con il territorio attuata dai rispettivi sistemi sanitari e un migliore impiego dei medici di famiglia siano stati determinanti nella lotta contro l’epidemia.

Fonte: whs.mil

Prospettive future

Il confronto con altri Paesi ha messo in luce una crescente attenzione per le cure a domicilio e la medicina preventiva, mentre in Italia ci si concentra ancora troppo sugli ospedali. Tra i principali contestatori del modello italiano c’è il medico bergamasco Giuseppe Remuzzi, il quale nel suo libro (La salute (non) è in vendita, 2018) ha rimarcato quanto in Italia si sia soliti recarsi al pronto soccorso invece di affidarsi a un ambulatorio locale o a un medico del territorio. Il sistema criticato da Remuzzi è ritenuto troppo focalizzato sulle cure remunerative, centralizzato e poco interessato a sviluppare la medicina territoriale. Che questo possa essere un punto di partenza per la costruzione di una sanità regionale più capillarizzata e presente sul territorio?

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