Oggi ricorre l’anniversario della morte di Bob Marley, era l’11 Maggio 1981. Su di lui sappiamo praticamente tutto, su di lui è stato scritto tutto e il contrario di tutto, il valore del suo lascito è indiscutibile sia musicalmente che culturalmente.
Approcciarci ad un artista come Bob Marley e scriverne qualcosa di non banale non è semplice ma forse, dopo molto tempo dedicato ad ascoltare la sua musica e a leggerne recensioni più o meno condivise, abbiamo trovato una chiave: approcciarsi all’uomo (più che all’artista) può essere ciò che ci farà arrivare alla fine di questo articolo e ritenerci soddisfatti.
Bob Marley: identità a metà
Approcciarsi all’uomo Bob Marley significa innanzitutto fare i conti con le sue origini. Era il 6 Febbraio 1945.
Robert Nesta Marley nasce a St. Ann, nella parte settentrionale della Jamaica, più precisamente nel piccolo villaggio di Nine Mile. Per farvi capire meglio da dove parte Bob Marley ecco, questo era il contesto:
Bisognava darsi molto da fare: alle cinque ci si alzava, si montava sull’asino, si mungeva la mucca, si andava nei campi. Bob non era un bambino monello, di quelli che si cacciano sempre nei guai: a lui piaceva andare nei campi di patate, cacao, banane con il nonno e aiutare come poteva.
Neville “Bunny” Livingstone (cantante e percussionista, amico di Bob Marley poi membro del suo gruppo The Wailers) racconta così il loro incontro nel film Marley (diretto da Kevin McDonald e uscito nelle sale americane e inglesi nel 2012):
“La prima volta che l’ho visto era un ragazzino che tagliava un grosso pezzo di legno, se lo montava sulla testa e lo portava via, l’ho conosciuto così. Lui era l’unico…come si dice…”bambino rosso” della zona, tutti gli altri erano neri“.
Eccolo il tassello più importante della storia individuale di quel bambino giamaicano. Eccola la base su cui il piccolo e poi giovane Robert costruì la forza, la potenza e soprattutto la credibilità di Bob Marley. La discriminazione.
ll padre di Robert era un uomo bianco che lavorava per il governo inglese. Proveniva da una famiglia tutt’altro che felice di accettare e sostenere il matrimonio con la giovane giamaicana Cedella Booker. Il matrimonio si fece comunque ma, ovviamente, ebbe tempo molto breve.
Il giovane Marley veniva non solo preso in giro per il suo essere mulatto, veniva rifiutato, dai suoi stessi cugini (oltre che dal padre, che abbandonò la moglie quando era ancora incinta).
Robert cresceva e con lui cresceva quel senso insopportabile di sentirsi “diverso” noto a tutti coloro che nella vita sono stati discriminati per un piccolo difetto sul viso, per l’aspetto fisico, per il proprio credo, per il proprio orientamento sessuale, per le scarpe non di marca o per dio solo sa cos’altro.
Nel villaggio però qualche amico Robert ce l’aveva ed erano amici parecchio creativi quelli che giravano tra i campi di cacao e le baracche di Nine Mile insieme a lui.
Bunny, ad esempio, aveva costruito una chitarra con una scatola di sardine vuota e una canna di bambù come manico. Per le corde c’era la parte interna dei fili elettrici invece.
C’era poi chi prendeva una scatola di legno, ci attaccava tre pezzi di metallo e ne cavava uno strumento che chiamavano rumba box (le parti metalliche avevano dimensioni diverse quindi ognuna faceva un suono diverso). In quanto ai tamburi poi, ognuno se ne costruiva uno con la pelle di vacca.
Fu allora che Robert Marley vide una via d’uscita. La via d’uscita era nella sua chitarra, una scatola di sardine.
Ci fu poi il trasferimento a Trench Town (quartiere malfamato di Kingston, capitale della Jamaica). Ci fu il reclutamento per mettere insieme quelli che poi sarebbero diventati i The Wailers. E ci fu la conquista dell’indipendenza giamaicana dal Regno Unito nel 1962 e la voglia di creare una musica che rappresentasse il suo popolo.
La Jamaica diede vita ad un ritmo unico e lo fece non intenzionalmente ma con il semplice bisogno di suonare qualcosa in cui riconoscersi. Il risultato fu quello che ora conosciamo tutti con il nome di reggae ma che iniziò come ska, genere in cui l’accento cadeva in modo diversa da come cadeva di solito e cioè sul tempo debole invece che su quello forte.
In questi anni Robert conobbe Mortimer Planno, un leader spirituale rasta che lo prese con sé facendogli per la prima volta sentire cosa significasse appartenere ad una famiglia.
Tutta la sofferenza che si respirava in Jamaica (accumulata fin dagli anni in cui il Paese veniva usato come punto di smistamento degli schiavi africani verso l’America) spinse molta parte della popolazione a diventare militante. Bisognava trovare il modo per liberarsi dal sistema e il rastafarianesimo iniziò ad essere visto come la religione della liberazione.
Per tutta la vita le persone andarono e venirono dalla vita di Bob Marley ma il calore che trovò nella religione rasta a partire da quegli anni non lo abbandonò mai e dei messaggi della Bibbia Bob Marley fece la sua casa.
Il resto è storia. Bob Marley e i Wailers conquistarono in pochi anni prima la Jamaica, poi l’Europa, l’Africa, l’America e il mondo intero.
Nel giorno dell’anniversario della sua morte l’11 maggio del 1981 (causata da un melanoma partito dall’alluce destro e poi espanso in tutto il resto del corpo) il suo messaggio echeggia ancora e ancora nei cuori di tutti coloro aperti ad accoglierlo:
“Emancipate yourselves from mental slavery
None but ourselves can free our mind“
Ci siamo dimenticati di dirvi una cosa importante all’inizio: questo articolo scorre meglio se, leggendolo, in sottofondo mettete uno degli ultimi brani scritti da Bob Marley: Redemption Song. È questo il suo unico, vero, intramontabile testamento.