Franco Casalini è, forse, l’uomo che meglio rappresenta l’Olimpia Milano. Una permanenza di 18 anni, durante la quale ha percorso tutte le tappe possibili come allenatore. Una carriera leggendaria, nel momento storicamente più importante di questa squadra. Tra gli anni da vice e quelli da capo, il rapporto con Dan Peterson, con Dino Meneghin e compagni, aneddoti e ricordi indelebili, ci ha raccontato l’importanza della città e dei colori, passando anche dalla storica finale contro Livorno e culminando con riflessioni sull’Olimpia di oggi.

Olimpia Milano, un pubblico figlio della propria città

Giocare a Milano non è mai stato facile. Non solo per le particolarità della città o per il peso della maglia che si indossa, ma soprattutto per ciò che si rappresenta, una volta che si scende in campo ad Assago. Il Forum, così come San Siro, si è sempre dimostrato un palcoscenico tanto stimolante, quanto difficile. I tifosi biancorossi, figli della città nella quale vivono, hanno sempre dimostrato di avere un grande senso di appartenenza per i propri colori e di essere molto esigenti nei confronti di chi li rappresenta.

“Dagli anni ’60 ad oggi” ,spiega Franco, “sono cambiati tantissimi aspetti, soprattutto nel rapporto che la città ha con il basket e con la squadra. La costante è sempre stata la grande competenza. Il pubblico del Forum, storicamente, è un pubblico che praticava o seguiva da vicino, perciò molto esperto ed esigente. Una delle caratteristiche che mi hanno colpito è l’accoglienza verso chi ritorna, sia come biancorosso, sia come avversario. C’è sempre stato un grande senso di gratitudine per chi rappresentava la squadra. Oggi, i giocatori cambiano contesto molto più velocemente, ciò non toglie che chi ha giocato a Milano torna volentieri, perché sa di essere apprezzato dal pubblico” (ricordiamo quest’anno un vero e proprio boato, durante Milano-Efes, per Krunoslav Simon, ndr)

Franco Casalini: prima vice poi coach, con la costante della vittoria

Dal 1977 al 1987, Franco Casalini fu il vice-allenatore dell’Olimpia Milano. Dopo un anno con Pippo Faina, affiancò per 9 stagioni consecutive Dan Peterson, ritagliandosi un ruolo chiave nella costruzione dell’identità della squadra. Non a caso, nonostante i cambiamenti all’interno dello staff, Milano continuò ad essere tra i top team d’Europa. Il 1977 fu, inoltre, l’anno in cui Mike D’Antoni arrivò in Lombardia, aveva un anno in più dell’allora vice allenatore di Milano e sarà lui stesso a sostituirlo nel ruolo di head coach dell’Olimpia qualche anno dopo.

C’è una sottile frontiera tra il ruolo di vice allenatore e quello di head coach, all’interno della squadra. L’assistente è una figura complice dello spogliatoio, c’è un rapporto più amichevole con i ragazzi. L’essere capo allenatore impone, tuttavia, un approccio leggermente diverso. Devi prendere delle decisioni che non sempre possono piacere a tutti, infatti quel tipo di complicità non è più così spontanea. La mia fortuna è stata quella di allenare un gruppo di professionisti, persone speciali e sensibili, che hanno capito subito la situazione e mi hanno aiutato molto. Siamo riusciti a mantenere un bellissimo rapporto, nonostante quel cambiamento. Certo, i risultati aiutano, ma le relazioni che abbiamo instaurato erano più che mai genuine.”

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Franco Casalini al primo anno da capo allenatore
(photo credits: MuseodelbasketMilano.it)

“Via, verso una nuova avventura”

In 18 anni di carriera, si accumulano tantissime esperienze e ricordi che rimangono nel cuore per sempre. Non a caso, in una recente intervista l’ex allenatore anche di Forlì e Roma ha ammesso come l’Olimpia non sia soltanto la sua casa, ma la sua vita, come faccia parte della sua esperienza.
Uno di questi ricordi è rimasto talmente impresso nella memoria dell’ex commento tecnico di Sky, da ispirare il titolo del suo libro “E via…verso un’altra avventura!”

“Ci sono tantissimi ricordi fantastici. Ricordo quando scarrozzavo Dan in macchina. Era sempre un’avventura e, spesso, guardava fuori dal finestrino e si faceva distrarre da qualche bella ragazza… Mi viene in mente quando portai Cedric Henderson (a Milano nella stagione ’85-86) per la prima volta in giro per Milano, passammo davanti al Castello Sforzesco e lui mi chiese: “e qui chi abita? Il re?”. Mi fece molto ridere. Uno dei più significativi, sicuramente, è quello che ha dato il titolo al mio libro. All’indomani di una sconfitta inaspettata e deludente contro una modesta squadra francese in Coppa dei Campioni, tutti erano abbastanza abbattuti e mogi sul pullman, anche perché all’epoca era più breve il calendario e ogni partita era fondamentale. Stiamo per partire e Dino Meneghin, nel silenzio generale, urla: “e via! Verso una nuova avventura“. Questo la dice lunga non solo sulla sua mentalità vincente, ma anche sulla voglia che c’era di stare insieme, vivere il gruppo.”

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Dino Meneghin e Franco Casalini, campioni d’Europa 1989
(photo credits: Basketuniverso)

Milano-Livorno 1989, “non l’ho più rivista talmente mi emoziona”

27 maggio 1989. Una data indimenticabile per tutti gli appassionati, ma soprattutto per i tifosi Olimpia. Gara 5 della finale scudetto, Livorno segna a tempo scaduto il canestro della vittoria e il pubblico invade il campo per festeggiare. Seguiranno minuti indescrivibili e unici per quello che è successo. Dopo momenti di tensione a livelli difficilmente immaginabili, verrà assegnata la vittoria alla Philips Milano, perché il canestro di Andrea Forti sembra essere arrivato oltre il suono della sirena. Una frazione di secondo di cui si parla ancora a 30 anni abbondanti di distanza.

“Mi ricordo noi chiusi negli spogliatoi in attesa della decisione, mentre fuori succedeva di tutto. Eravamo scappati perché i sostenitori di Livorno ci stavano tirando addosso il mondo. Mi ricordo Premier disperato per aver sbagliato la tripla che ha scaturito il contropiede di Livorno. Nonostante tutto sentivamo fosse nostro quel risultato. Ho viva nella mente l’immagine di Cappellari che entra nello spogliatoio e ,senza farsi sentire, ci fece capire che avevamo vinto. Mi buttarono sotto la doccia in un’esplosione di gioia. L’ultima fatica fu raggiungere la polizia che ci avrebbe scortato al pullman. Si trovavano dalla parte opposta e dovemmo riattraversare il campo per poi fuggire. L’arrivo a Milano fu indimenticabile.
Il tuffo di Mcadoo? Ci guardammo in panchina e pensammo la stessa cosa: questo è un fenomeno. Aveva 38 anni e negli anni non ci aveva abituato a quel tipo di giocate. Sarò sincero, non sono più riuscito a guardarla. Ancora oggi a pensarci ho i brividi.”

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Il tuffo di Mcadoo.
(photo credits: Olimpia Milano)

Olimpia Milano, costruire il futuro ispirandosi al passato

Oggi, la società milanese, insieme a tutto il basket italiano, è nettamente cambiato.
Un tempo i roster cambiavano pochissimi di anno in anno, mentre oggi vediamo tantissime squadre che ogni estate ripartono da zero e, forse, in alcuni casi è il motivo di una serie di risultati poco convincenti. L’abbiamo ripetuto mille volte. La Milano della gestione Armani ha raccolto poco, rispetto a quello che ha investito. La domanda che tormenta i tifosi biancorossi è sempre la stessa: perché? L’ultima estate sono arrivati, finalmente, cambiamenti importanti a livello societario. Ora che le famose “mele marce” sono state eliminate, Ettore Messina ha il compito più arduo: invertire la tendenza e rispettare i pronostici. Solo il tempo ci dirà se sarà in grado.

“Penso che la difficoltà maggiore sia ripartire da zero ogni anno. Ogni anno bisogna mettere insieme un gruppo, far ambientare i nuovi giocatori con gli altri e non è facile. Sicuramente, sono stati commessi tanti errori, altrimenti non saremmo qui a parlarne. C’è da dire che ci sono tante squadre competitive. Anche per i giocatori è diverso. Oggi è tutto più liquido e, magari, giocatori di una certa rilevanza partono perché attratti da altre destinazioni. Anche D’Antoni aveva offerte, ma era più difficile liberarsene. Il Forum, inoltre, rappresenta una piazza particolare. C’è una spinta diversa, è un pubblico meno caldo di altri. Sa entusiasmarsi, ma va coinvolto e, solitamente, non tende a contestare. I giocatori devono trovare le motivazioni anche dentro se stessi e, forse, negli ultimi anni, questo è un pò mancato.”

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