Il XVIII canto dell’inferno è quello delle Malebolge, cosi chiamato da Dante, e il cui termine è ancora oggi usato, in senso dispregiativo, per descrivere luoghi assiepati di gente. I due poeti, scesi dalla groppa di Gerione, entrano così in quello che venne definitivo dal De Sanctis il basso inferno.
Nella descrizione delle 17 cantiche rimanenti, Dante, sembra raggiungere una diversa maturità artistica, che si traduce in un discorso narrativo e lirico assai più articolato. Abbandonato l’inferno degli incontinenti e dei violenti per passione, spesso descritti con ammirazione, e per i quali noi stessi ci commuoviamo, Dante, ci mostra quello degli ingannatori. Qui la passione muta in vizio, il carattere in bassezza, la forza in malizia. Nel regno dei ruffiani e dei seduttori infatti, l’arte profanata si farà mestiere, un mestiere che il poeta disprezzerà con durezza e poco distacco.
Il Canto fra ruffiani e seduttori
Arrivato con Virgilio nelle Malebolge, Dante, le descrive come fossero di pietra color ferro; un baratro come con un pozzo profondo con al centro una striscia di pietra divisa in dieci fossati concentrici. I fossati li vediamo come simili a quelli che circondano i castelli a protezione, uniti alle Bolge da ponticelli rocciosi simili a ponti levatoi.
Nella prima Bolgia, alla sinistra di Dante, i peccatori sono sul fondo, nudi, procedono in due file parallele che vanno in direzioni opposte. I ruffiani camminano lungo il margine esterno, i seduttori lungo quello interno:in modo simile a quello dei Romani che attraversavano il ponte di Castel S’Angelo nell’anno del Giubileo. I dannati sono frustrati da dietro, potremmo dire sculacciati, da demoni cornuti armati di frusta, e per questo ad ogni frustata camminano più velocemente. I ruffiani,vengono qui descritti come coloro che hanno indotto le donne a soddisfare le voglie di qualcuno; i seduttori come quelli che esercitarono il medesimo inganno ma a proprio vantaggio.
Incontro con Venetico Caccianemico
Nonostante il dannato cerchi di nascondersi agli occhi di Dante, il poeta lo riconosce, interrompe il suo cammino e torna indietro. Si tratta di Venetico Caccianemico, nobile bolognese, capo fazione dei guelfi della città. A quel punto il dannato confessa spontaneamente la sua colpa a Dante, colpa allora oscura al poeta. Il Caccianemico, dannato fra i ruffiani, confessa di avere venduto la propria sorella Ghisolabella, non è chiaro se per ragioni politiche o economiche, al marchese D’Este. Ma prima che Dante possa dire, fare o pensare qualsiasi cosa, interviene un demone che con una violenta scudisciata, fa avanzare il dannato e porta i due poeti a proseguire il loro cammino.
Giasone il seduttore
Giunti sul ponte di pietra che sorvola la Bolgia da un’argine all’altro, Dante si volta ad osservare bene quei dannati che prima, dal momento che procedevano nella sua stessa direzione, non riusciva a scorgere. È qui che Virgilio gli indica Giasone. Il dannato diversamente da tutti gli altri, incede con fierezza, non si lamenta, e non versa una lacrima nonostante il dolore.
Giasone è colui che con coraggio e astuzia si impadronì del vello d’oro e che sconta ben due seduzioni, una ai danni di Medea, e l’altra a quelli di Isifile, una giovane dell’isola di Lemmo. Dante insiste più su la storia della ragazza che insieme alle altre donne dell’isola, aveva assassinato tutti gli uomini, colpevoli di non prestar loro abbastanza attenzione. Tutti tranne il padre. Isifile, che venne da Giasone sedotta e lasciata incinta già del secondo figlio, è considerata da Dante come la vera vittima di quella seduzione. Medea come sappiamo, invece, uccise i due figli avuti da lui per tormentarne la coscienza per l’eternità.
L’uscita fra gli adulatori
Il canto si conclude con la visione degli adulatori fra cui il poeta riconosce Alessio Inteminelli e la prostituta Taide. La descrizione della Bolgia in cui si trovano i questi dannati è cruda, forte. Immersi nello sterco, si battono la faccia e il corpo con mani e unghia lorde di quel liquido simile a quello che fuoriesce dalle latrine umane. Vi è qui l’umanità più degradata e corrotta, la cui vista è talmente ripugnante da spingere i due poeti ad andare oltre più velocemente possibile.
Cristina Di Maggio
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