Fëdor Dostoevskij nasce l’11 novembre del 1821. Il padre, Michail Andreevič Dostoevkij, era un medico militare discendente da un antico ceppo nobile lituano, e la madre, Marina Fëdorovna Načaeva, apparteneva a una famiglia di mercanti moscoviti.
Nel maggio del 1837 la famiglia si trasferisce a Pietroburgo, pochi mesi dopo la morte di Fëdorovna, dove Fëdor e Michail frequenteranno il convitto preparatorio in attesa degli esami di ammissione all’Istituto di ingegneria.
Ritiratosi in una compagna non molto distante da Mosca, il padre, datosi al bere, verrà ucciso dai suoi contadini. È in quella occasione che Fëdor Dostoevskij ebbe il suo primo attacco di epilessia, male di cui soffrirà per tutta la vita.
Dopo essere stato ammesso al corso per ufficiali subalterni ed entrato in servizio presso il comando d’ingegneria militare di Pietroburgo, nel 1844 Fëdor dà le dimissioni e lascia il servizio militare. Inizia così la sua attività di scrittore con la pubblicazione di alcuni racconti e romanzi tra cui: Povera gente; Il sosia e Romanzo in nove lettere.
Nel 1848 Fëdor Dostoevskij pubblica alcuni racconti in vari numeri di rivista, tra cui il romanzo breve Notti bianche
L’inizio della carriera letteraria coincide per lo scrittore con un periodo di attività sociale che consisteva soprattutto nella frequentazione di riunioni in cui si parlava di problemi politici e sociali e dei fatti di attualità. Ad animarle erano diversi intellettuali per lo più dediti alle idee del socialismo utopistico. La sua partecipazione gli costa, a lui e ad altri, la condanna a morte. Viene arrestato e rinchiuso nella fortezza di Pietro e Paolo.
Il 19 dicembre 1849, Nicola I commuta la condanna a morte con la deportazione, ma, con raffinata crudeltà, i condannati sono condotti al cospetto del plotone d’esecuzione e solo davanti alle armi puntate vengono a sapere della commutazione della pena.
Il male, la ragione ultima della sofferenza, l’ingiustizia del dolore che attraversa la letteratura russa, e l’impossibilità di capire dove nasce questa condanna è l’ossessione di Fëdor Dostoevskji.
Quell’evento segnerà uno vero e proprio spartiacque tra il prima e dopo della vita di Fëdor Dostoevskji, come testimonia una lettera scritta il 22 dicembre e destinata al fratello Michail.
La vita è vita ovunque, la vita è dentro di noi, non al di fuori. Intorno a me ci saranno altri uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, qualche disgrazia capiti, senza lamentarsi, non perdersi d’animo – ecco in che cosa consiste la via, qual è il suo scopo. Me ne sono reso conto. Quest’idea si è fatta di carne e sangue. […] Però in me è rimasto il cuore, e quella carne e quel sangue che ancora possono amare, soffrire, desiderare e ricordare, e in fondo anche questa è vita.
In tutta la sua vita lo scrittore non dimenticherà mai i terribili attimi trascorsi faccia a faccia con la morte. Tanto che farà dire al principe Myškin, ne L’idiota, discutendo della pena di morte: “il dolore più grande non deriva dalle ferite, ma dal sapere con sicurezza che tra un’ora, tra dieci minuti, tra mezzo minuto, adesso, ora, l’anima volerà via dal corpo e di noi on resterà nulla, e dal sapere che ciò avverrà con assoluta certezza“.
In ogni racconto, o romanzo, di Fëdor Dostoevskij è come se la città dettasse uno stato d’animo, o fosse creata per amplificare l’angoscia. Ciò che predomina è l’eterna lotta tra le forze che dominano l’orizzonte e opprimono la vita umana: il Bene e il Male.
L’uomo diventa il personaggio simbolo dei suoi romanzi per scendere nei meandri della sua anima e per capire perchè non crede che il male sia lo stato normale degli uomini.
Il diavolo lotta con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo.
( I fratelli Karamazov, 1881)
In questa linea può essere interpretata la sua opera più conosciuta: Delitto e castigo (1866). Conflitti psicologici, tormenti morali e le idee dei personaggi si inseriscono nell’ossatura di un romanzo perfettamente costruito, con un’ambientazione tipicamente pietroborghese. Il tutto in un’atmosfera carica di tensione e in cui aleggia costantemente il presentimento che qualcosa di terribile stia per accadere.