Se è vero che dovremmo tutti, come ci ha insegnato Gandhi, essere “il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo” e quindi condurre ogni giorno la nostra personale rivoluzione, è anche vero che, da sempre, l’uomo ha bisogno di eroi e modelli da seguire. Qualcuno verso il quale alzare gli occhi e dal quale farsi ispirare. Le più grandi battaglie dell’umanità muovono i primi passi a partire da uomini e donne comuni che, con la loro prima scintilla, innescano il fuoco del cambiamento e finiscono col diventarne i simboli nei nomi dei quali continuare a lottare. Tra le fila di uomini e donne che scorgiamo alzando gli occhi, troviamo Miriam Makeba, colei che è presto diventata il simbolo di un popolo oppresso, il volto musicale della battaglia contro l’Apartheid.
“Ci sono tre cose per le quali sono venuta al mondo e ci sono tre cose che avrò nel cuore fino al giorno della mia morte: la speranza, la determinazione e il canto .”
L’incontro di stili nella musica di Miriam Makeba
Miriam Makeba nacque il 4 marzo del 1932 in un sobborgo di Johannesburg e morì il 9 novembre del 2008 a Castel Volturno, in provincia di Caserta, colta da un malore subito dopo aver cantato ad un concerto in solidarietà allo scrittore Roberto Saviano e alla memoria di sei immigrati africani uccisi dalla camorra proprio in quella terra. Venuta e andata via dal mondo… fra gli ultimi. In mezzo, tutta una vita spesa prestando la propria voce, calda e melodiosa, proprio a quegli ultimi che una voce non ce l’hanno.
Molto giovane iniziò ad appassionarsi alla musica e si unì a diversi gruppi, iniziando con un repertorio a metà tra il Kwela africano e il Doowop. In seguito, arricchì la sua musica con elementi della tradizione trobadorica africana (Griot) e influenze jazz. Iniziò a farsi conoscere con i Manhattan Brothers per poi fondare i The Skylarks.
Nel ’60 partecipò al documentario Come Back, Africa e fu invitata al Festival di Venezia. Durante il suo tour negli Stati Uniti si consolidò la sua immagine di simbolo del popolo oppresso in Sud Africa, che le procurò poi il soprannome di Mama Africa, e per questo motivo il governo di Pretoria ne decise l’esilio.
La voce di un popolo oppresso
Per circa trent’anni la Makeba visse la dolorosa condizione di esule tra Londra, gli Stati Uniti e la Guinea. In America si unì alle lotte delle Black Panther per i diritti civili dei neri e sposò (in seconde nozze) l’attivista Stokely Carmichael. In questi anni incise alcuni dei suoi più grandi successi come Pata Pata, The Click Song e Malaika. Numerose furono anche le collaborazioni con musicisti americani. In particolare, l’album An Evening with Belafonte/Makeba, insieme appunto ad Harry Belafonte, vinse nel ’66 un Grammy per la migliore incisione folk. Il disco trattava esplicitamente temi politici legati alle diseguaglianze e le ingiustizie sociali subite dai neri sudafricani sotto il regime di Apartheid.
Già nel ’63 la Makeba aveva portato la propria testimonianza al comitato contro l’Apartheid delle Nazioni Unite. Per tutta risposta il governo sudafricano bandì i suoi dischi.
Ma anche in terra americana non ebbe vita facile: insieme al marito finì nel mirino dell’FBI, i suoi concerti e progetti di dischi furono cancellati. I coniugi decisero quindi di trasferirsi in Guinea, continuando le loro lotte. Qualche anno dopo divorziarono ma la cantante portò sempre avanti il proprio attivismo, dedicandosi, in particolare, anche alla condizione delle donne in Africa. Fu, inoltre, delegata della Guinea presso le Nazioni Unite, vincendo il Premio Dag Hammarskjöld per la Pace nel 1986.
Mama Africa, la voce di una combattente
Nel ’90, finalmente, Mama Africa poté tornare nella propria terra e seguire da vicino le ultime battaglie che portarono alla sconfitta del regime di Apartheid, sempre al fianco dell’amico di una vita Nelson Mandela, conosciuto ai tempi della fondazione dell’African National Congress nei primi anni’50. Nel ’92 prese parte al film Serafina! Il Profumo della Libertà, sulle sommosse di Soweto del ’76. Le stesse rivolte che aveva cantato nel brano Soweto Blues, scritto per lei da Hugh Masekela. Nel 2002 partecipò ad un altro documentario sull’Apartheid: Amandla! A Revolution in Four-Part Harmony.
La cantante è stata nominata Ambasciatrice di buona volontà dalla FAO, ha ricevuto la Medaglia Otto Hahn per la Pace e ha vinto il Polar Music Prize.
Ci si chiede spesso se la musica possa cambiare il mondo. È chiaro che da sola la musica non può farlo. Così come un uomo o una donna da soli non possono. Quello che ognuno di noi può fare è la propria parte. Miriam Makeba ha usato la sua musica come arma per combattere l’Apartheid e i suoi canti di dolore e di denuncia, ma anche di speranza e di gioia, sono stati i ripetuti colpi inferti ad un regime di oppressione di un intero popolo.
“Giusto così, giusto che gli ultimi momenti di vita di Miriam siano passati sul palcoscenico. Le sue melodie hanno dato voce al dolore dell’esilio che provò per trentuno lunghi anni, e allo stesso tempo, la sua musica effondeva un profondo senso di speranza.” Nelson Mandela
Emanuela Cristo
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