Qualcuno sostiene che il negazionismo italiano si sia amplificato per colpa di una frase improvvida pronunciata da una donna sotto al sole di Mondello. Quella frase è diventata “pop” e il resto lo sappiamo tutti: gravi (ed eccentrici) meccanismi sociali si sono sviluppati, moltiplicati e arrabbiati.
Da una negazione spiritosa, innocente quasi, si è passati all’esaltazione di un modello sociale pericoloso, così tanto da innescare odio, scontri e rivalità, apparentemente immotivati. E, ironia della sorte, questo meccanismo del “negare” si è moltiplicato liberamente come un virus. Così, adesso, allo stato attuale di questo tempestoso periodo storico, ci ritroviamo infetti due volte: di Covid e di anti-Covid.
Lo aveva tratteggiato benissimo Michela Murgia, nel suo “Istruzioni per diventare fascisti”, quanto sia faticoso essere democratici al giorno d’oggi. La fatica è palpabile. Sembra che quotidianamente si abbia bisogno della dose di notizie necessaria per drogare piccoli mostri rinchiusi in ciascuno di noi. Ogni “proposta” riceve trollate inimmaginabili, ogni “soluzione” non è la soluzione adatta per qualcun altro, ogni sfogo è vittimismo, ogni lotta è politica, ogni menefreghismo è lassismo, ogni like è un punto. Ma di quale classifica?
Non c’entra più nemmeno il Covid che, sì, ha supportato l’accentuarsi di alcune dinamiche antagoniste, non c’entrano le parole sterili di capitani e coraggiosi, non c’entrano i social media, non c’entra la Politica (tra caos e superficialità), né c’entrano gli schieramenti, sono troppi. Tutto è caotico perché libero, fortunatamente. E questa libertà, filosoficamente, poeticamente e concretamente è una bella cosa, a prescindere.
Ma chi ci pensa più alla libertà? Chi ci ha mai pensato? Forse è più giusta la seconda domanda. La risposta viene così, su due piedi: “nessuno”. Questa impulsiva opinione “schiaccia qualche vena del cervello”, legittimamente, a qualcun altro capace di pensare all’idea romantica del “non tutto è perduto”. Ironicamente si potrebbe pure essere dello stesso parere. Anche se ragionare attorno al concetto di “libertà intrappolata” forse ha più senso.
Una volta c’erano i Capitani, eccome. Probabilmente, nostalgicamente o anacronisticamente erano importantissimi ad evitare tutta questa dispersione. Erano le boe in mezzo al mare. Proviamo a ragionare.
Ognuno si figuri il proprio capitano nella testa. Ora immaginiamo questa figura talmente “influencer” da determinare alcuni confini ben riconoscibili oltre i quali è impossibile poter andare. In senso etico, non di libertà umana, attenzione. Ipotizziamo questo Capitano capace (per dialettica, leadership, presenza) di arginare la porta del caos e frenare l’esondazione verso il qualunquismo di un qualsiasi concetto. Qualcuno adesso penserà agli ideali. Qualcun altro alla dittatura. Qualcun altro ancora alla pizza margherita. Qualcuno alla cassa integrazione e via discorrendo. Ogni capitano è bello ‘a mamma soj. Troppi Capitani, vero? Non se ne esce. Si ricade nel caos. Non possono esisterne troppi. Non dovrebbero essercene troppi. Allora facciamo che sono soltanto due. Due capitani opposti. Uno che la pensa in un modo e l’altro nel modo opposto.
Ricominciamo. Due capitani talmente “influencer” determinano confini chiari e riconoscibili oltre i quali è (per etica) impossibile andare. Devono entrambi prendere una decisione su un problema. Il problema è uno. Loro sono due. Anche le soluzioni trovate sono due. Opposte ma due.
Ora noi (il popolo) ascoltiamo queste due soluzioni e ci schieriamo con o contro l’idea del nostro capitano. Il gruppetto di popolo più numeroso determina la soluzione scelta. L’idea sarebbe rimasta buona anche se vista dall’altro lato e assolutamente solida. Idea e contro-idea, in questa ipotesi retrò, si sarebbero specchiate in un dialogo opposto ma speculare. Suona come ossimoro, certo, ma proprio questa utile accezione contrastante tiene in piedi il ragionamento. Oggi quale idea riesce ad arrivare fino alla sera? Nessuna. Anzi, talvolta questa idea non viene neanche palesata prima. Diventa subito una scelta. Cotta e mangiata, per dirla con Masterchef.
La parola “capitano” potrebbe essere interpretata come sinonimo di “potere” in quanto detto in precedenza e forse, se si legge tra le righe solo un valzer politico, è vero.
Questa tenue esposizione nostalgico-idealista, nemmeno troppo chiara in effetti, avrà già dieci o dodici versioni differenti pronte ad apparire sotto forma di commento: “sei antico”, “sei matto”, eccetera eccetera. Boom. Il caos. Eccolo. È inevitabile, bisogna esserne consapevoli. Perché siamo da soli, come lo sei tu che leggi e anche tu che leggi e critichi, e disapprovi arricciando il naso oppure tu che non leggi e guardi solo le foto.
Siamo tutti contro tutti, per forza. Ma la parola “tutti” che dalla definizione di Treccani è “L’intera quantità, l’intero numero, il pieno complesso, senza esclusione di alcuna parte o di alcuni elementi dell’insieme”, diventa sempre uno contro tutti. Dove l’uno è parte del tutto ma se ne tira fuori, isolato, combattendo contro tutti gli altri “uno”. Senza scomodare Leibniz (il filosofo, non il biscotto), posso constatare che nella “guerriglia” ideologica contemporanea è la solitudine la vera causa. Quindi “tutti contro tutti” diventa “uno contro uno più uno all’infinito”. E di questa solitudine da decreto ne siamo colpiti a raffica tutti. Ora è il “colorato lockdown”, il DPCM, prima era un’altra solitudine, quella del riparo comodo della tastiera.
La risposta al perché ci siamo così isolati nell’era delle “comunità” e della “rete” non c’è, non la si può nemmeno ipotizzare, non si va oltre il punto di domanda. Sicuramente è un limite. Probabilmente non esiste un intelletto capace di superare la domanda stessa. Ma quel punto di domanda brilla, lampeggia, si annerisce col grassetto, sta lì, davanti a noi. E ci turba.
Sentiamo e leggiamo di “distanza sociale”, di “diversità”, di “differenze”. Ancora? Sì, ancora. Sentiamo e leggiamo di proteste, di disaccordi, di violenza e di fascisti e comunisti. Ancora? Sì, ancora. Sentiamo e leggiamo di ingiustizia, di razzismo, di discriminazione. Ancora? Sì, ancora. E navighiamo, come barchette di carta poggiate sull’onda più alta in mezzo all’Oceano Pacifico poco prima della tempesta più pericolosa della storia del mare. E ci turbiamo ancora di più.
Esiste (in rete) un articolo in cui il pensiero del filosofo Bauman si allinea a quello del rapper Fedez. Un bell’articolo. Bauman parla di “incertezza come unica certezza” e Fedez di “ipocrisia della società moderna”. Un impasto perfetto per descrivere cosa siamo diventati. Bauman teorizza l’idea di una società “liquida”, che scorre verso un mare lontanissimo ma pur sempre verso un obiettivo. Fedez commenta la frase di una sua canzone: “mi fanno le foto mentre muoio“. Eccolo il climax. Il punto di contatto delle differenze. Un rapper e un filosofo? Eppure questo accostamento (privo di giudizio, sia chiaro) rispecchia benissimo il vulnus della contemporaneità e alimenta ancora di più le fauci del caos.
Fedez e Bauman mi sembrano perfetti cavalli di razza per raccontarci il riflesso delle nostre immagini. Ecco, ci si sente un po’ Bauman e un po’ Fedez oggi. Si agitano l’angosciosa concretezza del vecchietto Zygmunt e la frizzante critica contemporanea del tatuato Federico Leonardo. Ci siamo tutti quanti là dentro. Per ora qualcuno è ancora troppo fedeziano e affatto baumaniano e viceversa ma l’incrocio arriverà inevitabilmente.
Basterà sfiorare la tastiera, soffiare su un microfono, sorridere in una telecamera e l’incrocio lo percepiremo tutti. Chi in maniera violenta, chi in maniera più inconsapevole; come la signora Angela da Mondello, per esempio.
Questo essere “liquidi” ci appartiene. Lo diceva già Heidegger. Qualcuno sa riconoscerlo e molti altri no. E non è limitante, anzi. Forse è pure meglio. Si sta meno turbati. Si vive alla giornata scorrendo nell’alveo tracciato dalla propria normalità. Si mette un altro like e via, pronti per un altro passatempo infiocchettato. Entropia. Mostri. Nascono i mostri e noi tutti ci divertiamo a rimbalzarli sui meme e sulle bacheche.
Stiamo esagerando, tutti. Da un granello ne facciamo una montagna. Non riusciamo a riconoscere un pensiero da un opinione. ci sentiamo sotto attacco, sempre e ci trinceriamo dietro a regole inutili, pronti ad infrangerle appena ce ne viene voglia. Questo accanimento violento, oltre a creare danni alla salute, si sgretola in quello successivo, già più nuovo e già quasi finito. In un susseguirsi di inutilità sparite tramonto dopo tramonto.
Al Sole successivo eccola l’immagine universale: lo specchio, con la propria immagine rigata dal cuscino. In quell’immagine ognuno dovrà decidere cosa fare. Presto però, altrimenti arriva il caffè e l’incazzatura è dietro l’angolo, pronta già a tormentarci con l’annosa questione di Google: si scrive pultroppo oppure purtroppo. E, annegando nella sconclusionata futilità dell’apparenza immediata super cliccata e ri-condivisa, tra cento post e mille ore perse a lanciare scarpe in aria per sentirci tutti mago Merlino di Tik Tok, non avremo più tempo per capire come fa ad essere già buio fuori e torneremo a letto, a fare incubi, sperando (o pregando) che tutto passi alla svelta.