Ricordare la Shoah attraverso la letteratura per sfuggire all’oblio.
Memoria collettiva. Memoria storica. Memoria del cuore. Diverse accezzioni, diverse applicazioni tutte collegate, però, da un unico filo conduttore: trasmettere, raccontare per ricordare e rimediare.
Ogni anno, il 27 gennaio, si celebra la Giornata della memoria. Ogni anno, si chiede di ricordare – a chi non ha vissuto l’orrore – di provare a calarsi nei panni di chi quell’orrore l’ha vissuto e non l’ha certo dimenticato.
Chi l’ha vissuto, di notte lo sogna: un perpetuo incubo che gli ricorda un passato e irripetibile ma che non abbandona. Perchè siamo fatti di memoria, molto più che di sogni.
Chi l’ha vissuto, o chi ne ha sentito parlare indirettamente o direttamente dai sopravvissuti, prova a tramandarlo con i ricordi o con il nero su bianco. La letteratura è uno dei rimedi all’oblio per le genrazioni che verranno, quando non ci saranno più sopravvissuti a raccontare e a ricordare.
La letteratura fa da eco alla memoria della Shoah
Ma la letteratura è anche salvifica: argina i demoni del passato in uno spazio circoscritto, li annienta raccontando il non-raccontabile, il non comprensibile, l’assurdo, rendendoli nuovamente reali e gettando il seme di quella sensazione difficile talvolta a provare: l’empatia.
Sì, perchè spesso si dice che “se non hai provato, non puoi capire. Se non l’hai vissuto, non lo puoi raccontare”. Perchè la Shoah non è solo un evento storico ma è il subconscio di una cultura, quella ebraica e israeliana.
Anche per chi non ha conosciuto i campi di concentramento, scrittori di generazioni successive a Primo Levi o Fiano Nedo, l’Olocausto non è direttamente menzionato, ma è riscoperto nei sogni, nei pensieri, nel modo di essere, nella loro cultura e nella rappresentazione del loro Stato.
Al cuore di tutto c’è la paura, il fatto di essere sempre pronti a difendersi, a scappare dal prossimo pogrom, dalla prossima esplosione antisemita. E mai come in questo particolare periodo storico, quella paura sembra fare di nuovo capolino, in maniera “innocente” (per non dire ignorante) con chi non ha compreso la portata storica dell’evento.
La capacità di trasmettere questa consapevolezza su carta dimostra la capacità di conservazione di un ricordo e allo stesso tempo la liberazione da esso.
Più ci si allontana dalla Shoah, più siamo portati a chiederci che cosa succederà quando morirà l’ultimo sopravvissuto dell’Olocausto, come se, senza la trasmissione di quelle testimonianze, la memoria possa gradualmente affievolirsi fino a scomparire.
O peggio, che quella memroia venga alterata, manipolata e negata anche in presenza di tutte le esperienze vissute in prima persona nel mondo. La fine di quella generazione renderà semplicemente più difficile la sfida infinita non solo di ricordare, ma di ricordare onestamente.
Il dovere della nostra generazione è di preservare quella memoria, non solo dal decadiemento ma anche dallo sfruttamento.
La Shoah attraverso forme d’arte diverse dalla letteratura
La letteratura, e il cinema tra le altre forme d’arte, sarà sempre un rimedio. Shinder’s List è ancora uno dei film più proiettati nelle scuole; La Banalità del male tra i libri più letti, insieme a Se Questo è un Uomo.
Quando i luoghi simbolo, come i campi di concentramento, non bastano a custodirla, la letteratura può ricordare per chi cerca il buio dell’ignoranza.
Insieme ad autori della “vecchia guardia”, vogliamo citarne alcuni di una generazione a noi più prossima: Nathan Englander; Ayalet Gundar-Goshen; Etgar Keret; Eshkol Nevo; Jonathan Safran Foer; David Grossman. Ebrei di un’altra generazione che con le loro storie guardano al passato per trarne la forza necessaria ad affrontare il futuro.