Oggi è la giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale: istituita dalle Nazioni Unite, la ricorrenza – come ogni anno – ci riporta a quel 21 marzo del 1960, tristemente noto come il massacro di Shaperville, avvenuto in Sudafrica nel periodo di massima intensità delle proteste popolari contro l’apartheid. Letteralmente “separazione”, l’apartheid era la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo di etnia bianca sudafricano. Quella del 21 marzo fu la giornata più sanguinosa: 180 manifestanti neri rimasero feriti, mentre 60 vennero uccisi da poliziotti bianchi, durante le proteste pacifiche contro l’Urban Areas Act, secondo il quale i sudafricani neri dovevano esibire uno speciale permesso se fermati nelle aree riservate ai bianchi. Da allora molti passi sono stati compiuti: l’apartheid in Sud Africa è stato smantellato, in molti paesi le leggi e le pratiche razziali sono state abolite, e la Convenzione internazionale sull’eliminazione della discriminazione razziale ha contribuito a costruire un contesto internazionale per combattere il razzismo. Eppure di discriminazione razziale si sente parlare ancora. Non solo nelle giornate commemorative. Non solo all’estero. Troppe persone, comunità e società soffrono a causa delle ingiustizie e dello stigma legati al razzismo.
Fomentate dalla paura sociale, le discriminazioni e i crimini d’odio diffusi in tutte le società si rivolgono ai migranti, ai rifugiati e ai popoli di discendenza africana. Ma non solo. Come riportato da Repubblica, secondo l’Oscad (Osservatorio interforze per la Sicurezza contro gli Atti Discriminatori) ogni anno in Italia si verificano circa mille reati aventi a che fare con discriminazione di razza, identità di genere e disabilità. Mentre tre episodi di violenza su 4 sono di matrice xenofoba. Dei dati, questi, che dimostrano quanto determinati temi non siano solo alla base dei più tragici episodi della storia dell’umanità, ma ancora oggi sono la scintilla e il pretesto delle più gravi violazioni dei diritti umani. Nonché il principale ostacolo nel progresso dell’umanità. Un progresso che spesso si crede di aver raggiunto quando, fra gli altri, un afroamericano arriva alla guida di un Paese come gli Stati Uniti – come fu per Obama nel 2009 – costituendo quello che – solo apparentemente – è l’inizio di una nova fase, il passaggio ad uno stadio post-razziale con cui lasciarsi alle spalle tutto un passato di discriminazioni e odio verso il ‘diverso’. Ma se episodi come questi rappresentassero invece solo un’illusione? Un’ingenuità con cui oscuriamo il reale stato delle cose? La vittoria di Trump alle elezioni successive ne è la prova evidente: tanto per non citare episodi epici come quello che, lo scorso 25 maggio, ha coinvolto George Floyd, ucciso durante l’arresto da uno degli agenti della polizia di Minneapolis che, nell’immobilizzarlo, gli ha impedito di respirare per quei lunghissimi 8 minuti e 46 secondi. Un’atrocità che – come riportato di recente – risarcirà i danni alla famiglia con 27 milioni di dollari. Ma non quelli di un’intera comunità ancora costretta a subire violenze per la sola colpa di avere la pelle scura.
Il razzismo è una realtà di tutti
Per quanto sia una costante nella storia degli Stati Uniti, il razzismo tocca da vicino non solo gli americani, ma chiunque. Italiani inclusi: lo abbiamo scritto. A rendere sporca la nostra coscienza civile sono episodi estremi e significativi, come quello accaduto a Willy Monteiro Duarte: il 21enne picchiato e lasciato morire per strada, il 5 agosto scorso, da alcuni coetanei a Colleferro (RM), per aver difeso un amico in una rissa. Un episodio che sarebbe potuto succedere ovunque, come lo stesso sindaco sottolineò ai tempi, che tuttavia dimostra quanto il contesto sociale ne faccia da padrone. Ma i segnali di razzismo sono anche più sottaciuti dei casi come quello di Willy, e vengono fuori anche quando semplicemente leggiamo il titolo di un giornale che, nel riportare certe notizie, veste i soggetti in questione di aggettivi che non solo contribuiscono alla banale separazione tra “buoni” e “cattivi”, ma considerano il lettore stesso come incapace di approfondire certe riflessioni. Qualcuno ancora si ricorderà dell’imprenditrice Agitu Ideo Gudeta, la cui morte è rimasta sullo sfondo in ogni narrazione della stampa, per lasciare spazio alle origini di lei e del suo assassino stupratore che non era né italiano, né il padre né il compagno. Una descrizione – funzionale a certi dettami – che ha trasformato la donna in una migrante/eroina e lui nel solito pericoloso non bianco. Eppure, ancora niente di cui stupirsi, se si pensa che persino la pandemia da Covid ha avuto un forte impatto sulle vite e i diritti delle persone più povere ed emarginate, soprattutto in quei Paesi del mondo, dove le minoranze etniche hanno avuto minor accesso alle cure mediche.
L’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani stabilisce che tutti gli esseri umani sono nati liberi e uguali in dignità e diritti. E il secondo articolo recita “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza destinazione alcuna per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altra genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”. Peccato che episodi come quelli citati dimostrino come queste parole restino ancora solo scritte. Perché la nostra società si dimostra priva degli strumenti necessari a valorizzare la diversità. Dunque, giusto intitolare quest’edizione 2021 “Youth standing up against racism”, per promuovere l’educazione ad una cultura di tolleranza, antirazzismo e convivenza pacifica fra i popoli sin dalla giovane età. Nonché per sottolineare l’impegno profuso proprio da quei “giovani che si oppongono al razzismo” in più parti del Mondo, attraverso una pervasiva e capillare opera di mobilitazione digitale e reale. Ma per giungere a una reale coesione sociale, al rifiuto di tutte le forme di conflitto, e smettere di essere solo ‘buonisti’ e capire il valore vero dell’umanità, resta ancora molto da fare.
Francesca Perrotta