“È robba der paese nostro, che se po’ cantà pure senza voce”, il ritornello della sua serenata, lo racconta più di un libro di memorie. Nino Manfredi, Saturnino nostro, è il sentimento e il folclore della Roma popolare. È la voce delle viuzze, dei selci, dei suoi bassi e delle osterie. Come un personaggio di Trilussa, del Belli, ma autentico, reale: da cent’anni il ‘friccico’ di Roma.
Nino bussa prima di entrare. Sulla scena non fa il padrone, ma si presenta col garbo, con quell’inchino che è una piegatura naturale del suo corpo. Non sarà applaudito per la spavalderia, ma perché te la ‘racconta’ senza recite, piano, con umiltà, remissivo come l’Accademia d’Arte Drammatica gli ha insegnato. “Sono ciociaro, sono nato a Castro dei Volsci in provincia di Frosinone“. Rivendicava le sue origini come uno stemma nobiliare. La purezza della lingua italiana la scandiva bene, ma sempre dopo l’intonazione di casa sua, l’orgoglio del frusinate.
Sor Nino per far la vita meno amara
Nino era la voce che faceva ridere alla radio. Per chi, ai tempi, aveva per svago, solo questi suoni che grattavano. Era il ‘Sor Tacito‘ che allietava le ore, ed era solo l’inizio di tutte le macchiette e caricature a venire. Una laurea di Giurisprudenza in tasca, ma Manfredi faceva ridere e sorridere, e il suo talento non era da esibire nelle arringhe. I suoi sogni si realizzarono: amato dalle donne, venerato, noto al pubblico. Lui che iniziò con una chitarra: quell’amica sotto braccio che teneva un po’ per compagnia, un po’ per scacciare la paura in sanatorio, dai diciassette ai diciannove anni, malato di tubercolosi.
In punta di piedi, accontentandosi di piccoli ruoli a teatro, per pagare la pigione e addentare un panino, finché non ci ha fatto perdere una puntata di “Canzonissima“: quando dal televisore posto in alto nei vecchi locali, il barista di Ceccano, Bastiano, imperversava con il suo ‘fusse ca fusse la vorta bbona‘. Dalla Sabina alle Alpi, riecheggiava l’intercalare più famoso e augurale della storia della televisione. Nino Manfredi, era il sorriso in mezzo alla quotidianità, l’amico spassoso per chi non poteva comprare la televisione, ed una bastava a radunare tutti. In circolo, tra le risate generali.
Manfredi, il Nobel di Ciociaria
La sua mimica leggera, i gesti delicati, quando era Piede Amaro nell’audace colpo de “I soliti ignoti“, o Antonio di “C’eravamo tanto amati“, che a cena innalza i rigatoni trafitti da una forchetta, e annuncia: “Re da’ mezza, mesa’ che manco te pagamo!“. Attore naif, americano di Roma, ha portato la Ciociaria come a due passi da Hollywood. Quando il Carbonaro chiede “Parola d’ordine?”, Manfredi il ciabattino Cornacchia, risponde “A’ ‘mbecilli!”, ne “L’Anno del Signore” di Luigi Magni. Da sempre la sua finezza romana ha fatto scuola. “E questa chi l’ha detta? Cicerone, Garibardi, er Sor Capanna?”, diceva diretto da Ettore Scola.
“Conta prima la mimica, poi la parola, e questo non lo insegna più nessuno”. Questo il suo segreto. Alla sua maniera, era Rugantino, Geppetto, Pasquino, Ponzio Pilato, e poi ancora, aveva la vena umoristica sugli accordi di una chitarra. Nino Manfredi sarà sempre quel ‘sogno a prima sera‘ che strimpella nella canzone. Tanto per cantare, tanto per sognare. Sarà quella preghiera cantata a Roma, a mezze parole, “Non te dico niente, ma c’ho bisogno di te“. Perché è quasi primavera, e ci saranno i grilli, le stelle, la luna, Nino, a far dire di si.
Federica De Candia per MMI e Metropolitan Cinema.