Quando il 4 novembre il primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed, ha iniziato la vasta operazione militare nello stato settentrionale del Tigray, dov’è stato proclamato lo stato d’emergenza per 6 mesi, il suo obiettivo era conquistare la leadership del partito al governo della regione, il Fronte di liberazione popolare (Tplf). Lo stesso che, per mesi, aveva sfidato sfacciatamente la sua autorità, fino al presunto attacco contro la base del Comitato settentrionale dell’esercito federale a Makelle, capitale dello Stato, presentato come movente stesso dell’offensiva, dunque una risposta, degenerata – quattro mesi dopo – in un aspro conflitto civile segnato da resoconti di gravi violazioni dei diritti, tra cui massacri, violenze sessuali e “pulizia etnica”.
Etiopia: la guerra pagata con la vita
Il 4 novembre il signor Abiy aveva usato toni bellicosi e gravi per giustificare l’attacco contro il Tigray, che ospita più di 5milioni di abitanti, per la maggior parte tigrini: le forze di difesa etiopi, disse, hanno l’obiettivo di “salvare il paese” da un governo regionale accusato di aver oltrepassato “la linea rossa”, nonché di “tradimento”. E i leader del Tplf non sono stati da meno perché già il 1 novembre, il presidente Debretsion Gebremichael aveva annunciato: “Se la guerra è imminente, siamo pronti non solo a resistere, ma a vincere”. Una guerra che è, alla fine, stata pagata con la vita di migliaia di persone. I numeri filtrano con estrema fatica: si tratta soltanto di stime basate su testimonianze frammentarie perché nell’intera regione è stata bloccata qualsiasi forma di comunicazione, imposta a intermittenza anche in seguito alla conclusione ufficiale del conflitto. Ma quello che fotografano è l’orrore di un’operazione di “annientamento etnico“. Oltre 500mila morti, tra i 4 e i 5 milioni di feriti, 60mila profughi, più fortunati, riusciti a fuggire in tempo nel vicino Sudan. Incalcolabile il numero delle donne stuprate, come sfregio supremo, da parte dei militari invasori. “Centinaia di donne stanno correndo negli ospedali del Tigray nel nord dell’Etiopia per contraccezione di emergenza e farmaci per la prevenzione dell’HIV dopo essere state sistematicamente violentate da soldati eritrei ed etiopi”, scriveva un giornalista del Telepraph su Twitter il 7aprile. Nelle ultime settimane, con l’arrivo di organizzazione internazionali e giornalisti, sono emerse testimonianze agghiaccianti. Interi villaggi sono stati distrutti, case incendiate, civili deportati chissà dove. Milioni di tigrini che non hanno più nulla, neanche medicine per curarsi. Eppure il premier l’ha definita “law enforcement”, un ripristino della legalità.
Dalla “pace” alla guerra
Il paradosso che proprio l’uomo premiato con un – ormai sbiadito – Nobel per la pace, nel 2019, abbia portato la guerra nel suo paese ha fatto molto discutere. Fu l’aver messo fine al conflitto ventennale in Eritrea che gli valse il plauso della comunità internazionale, e l’alleanza dell’Eritrea stessa. Tuttavia, una serie di episodi hanno in realtà messo in evidenza come l’elezione di Abiy a primo ministro nel 2018 e le politiche adottate da allora abbiano messo in crisi gli equilibri politici e le etnie. C’è chi sospetta che l’attacco al Tigray fosse in cantiere da mesi, pianificato proprio per estirpare la dirigenza del Tplf, unico partico che, dopo aver guidato il paese per circa trent’anni, non aveva voluto partecipare al nuovo Partito della Prosperità, voluto dal primo ministro. Un passaggio che ha comportato proprio l’espromissione dei vertici del Tplf da tutti i ruoli governativi che ricoprivano, e la reazione dei tigrini si è fatta sentire, rivendicando una sempre maggiore autonomia dal governo centrale. Inoltre, il governo aveva rinviato le elezioni generali previste per agosto a data da destinarsi, per via della pandemia. Ma il Tplf è andato avanti, vincendo col 98% dei voti, con cui ha rimarcato quello strappo, l’indipendenza di fatto, e accusando il premier di aver utilizzato l’emergenza sanitaria per prorogare illegittimamente il suo mandato. Da lì i rapporti tra il governo centrale e quello locale non hanno fatto che degenerare fino all’escalation militare, in cui la complicità dell’Etiopia con l’Eritrea è stata decisiva. In un certo senso, l’aspra lotta è stata guidata da forze profondamente radicate: controversie sulla terra di lunga data, visioni opposte sulla futura forma dell’Etiopia e una rivalità con l’Eritrea che risale a decenni fa. Ma i civili, e in particolare le donne, sono quelli che stanno subendo il peso della violenza più inquietante.
Il Tplf, nelle prime fasi, ha provato anche a difendersi, a reagire agli attacchi, ma la sproporzione delle forze in campo ha annientato qualsiasi possibile reazione. Il 28 novembre il premier Abiy, dopo aver insediato a Makelle una nuova amministrazione controllata dal Partito della Prosperità, ha dichiarato la fine dell’operazione militare. Dichiarazione solo di facciata, perché a dicembre il governo prometteva ancora 200mila dollari di ricompensa a chi forniva notizie sui dirigenti del TPFL fuggiti a nascondersi tra le montagne. A gennaio, sempre nel più totale black out informativo, è filtrata la notizia che 15 alti dirigenti tigrini erano stati uccisi. Poi sono arrivati i dossier, le denunce delle ong, i reportage di giornalisti coraggiosi che erano riusciti ad entrare nel Tigray. A quel punto l’orrore ha preso forma. E a più di 5 mesi dall’annuncio della fine della guerra, continuano ad emergere testimonianze scioccanti sulle violenze inflitte alla popolazione dalle forze etiope, eritree e da milizie locali nella regione del Tigray, dove secondo giornalisti e attivisti, la violenza sessuale viene usata come arma di guerra su scala “quasi inimmaginabile”. Pamila Pattern, inviata delle Nazioni Unite, si è detta “molto preoccupata”, riferendo di essere entrata in possesso di “notizie inquietanti”: “Varie persone – ha riferito nel suo report – sarebbero state costrette a violentare membri della loro stessa famiglia, sotto minaccia di subire a loro volta violenze”. Alcune donne “sarebbero state costrette dai militari a delle prestazioni sessuali in cambio di cibo” e ha citato i dati ottenuti dagli ospedali e dai centri medici, che “hanno indicato un aumento nelle richieste di contraccettivi di emergenza e di test per le infezioni sessualmente trasmissibili, che è ritenuto nella maggior parte dei casi un indicatore di violenze sessuali nei conflitti”.
“Ci hanno detto di non resistere”
“Questa è pulizia etnica” ha detto una 18enne etiope al New York Times, sopravvissuta a un tentato stupro che le aveva lasciato 7 ferite da arma da fuoco e un braccio amputato: ha raccontato che un soldato etiope aveva fatto irruzione in casa sua, dove viveva insieme al nonno, con il quale il soldato gli aveva ordinato di far sesso. Lui però si rifiutò, e il soldato lo chiuse in cucina dopo avergli sparato ad una gamba, per poi bloccare la ragazza e cercare di violentarla. “Ha detto che avrebbe contato fino a tre, e se non mi fossi tolta i vestiti mi avrebbe ucciso”, ha spiegato la 18enne. Ma il suo è solo uno delle centinaia di racconti che descrivono dettagliatamente gli abusi nel Tigray. Un funzionario delle Nazioni Unite ha rivelato al Consiglio di sicurezza che più di 500 sono le donne che hanno denunciato formalmente violenze sessuali. Nella città di Makelle, ogni giorno emergono nuovi casi. “Lo stupro viene usato come arma di guerra”, ha detto Letay Tesfay della Tigray Women’s Association, “Quello che sta succedendo è inimmaginabile”. Uno dei casi più eclatanti è stato quello di una 29enne che, sempre al New York Times, ha raccontato di essere stata legata ad un albero vicino casa sua ad Augula, e aggredita ripetutamente per un periodo di 10 giorni. “Ho perso il conto”, ha detto. Le hanno ucciso anche il figlio di 12 anni. Selam Assefe, un investigatore della polizia che lavora su casi di stupro presso l’Ayder Referral Hospital, ha confermato il racconto della ragazza. “Ci hanno detto di non resistere”, ha detto un’altra delle donne violentate. “Sdraiarsi. Non gridare”. Ma anche se avessero gridato, ha aggiunto, “non c’era nessuno ad ascoltare”.
E’ un’epidemia di violenza sessuale quella in Etiopia, che si aggrava per il collasso sanitario, a causa del quale molte delle vittime che hanno contratto malattie a trasmissione sessuale, compreso l’HIV, non possono curarsi. Mentre la richiesta di aborti e contraccettivi aumenta. Difficile capire cosa accadrà adesso. L’attenzione però deve restare alta, come avverte Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International: “Il ‘post-conflitto’, sempre che di un periodo successivo si possa già parlare, rischia di essere doloroso e incerto, se non si risolverà la gravissima crisi umanitaria in corso, se gli sfollati non potranno tornare alle loro case in condizioni di sicurezza e, soprattutto, se non vi sarà giustizia”.
Francesca Perrotta