Skid Row è quel distretto della Downtown di Las Angeles che contiene una delle più grandi popolazioni stabili di homeless negli Stati Uniti da ormai un secolo. Alcuni dormono sopra un cartone, altri nelle tende lungo il marciapiede. È un inferno nel cuore di Los Angeles, un ‘terzo mondo’ lontano solo qualche blocco dal Financial District, da lustrini e lusso, in cui l’umanità è disumanizzata, e la disperazione regna. E’ un quartiere fantasma dove i sogni di Holliwood diventano incubi. Un quadro disperato dove la povertà torna ad esistere anche nelle menti di chi la ignora. La popolazione di clochard che vive lì va dalle 3.000 alle 5.000 persone, da chi ha perso la casa ai tossicodipendenti, da chi soffre di malattie mentali a chi soffre di tutto questo e altro. Una volta era un’area urbana piena di bar, taverne e bordelli, con forte presenza di senzatetto. Nel 1975, dalla fine della guerra del Vietnam, è diventata invece solo l’area dei senzatetto: quella che è. In quello stesso anno venne proposto, attraverso un piano di sviluppo, un “containment policy”, vale a dire la concentrazione, in un’unica area, di tutti i servizi di rifugio per i senzatetto, isolati quindi dal resto di una città in piena fioritura economica e commerciale: il luogo prescelto fu proprio Skid Row. Negli anni 80′ venne anche emanata una legge che chiuse tutti gli ospedali psichiatrici riversando nelle strade un nuovo flusso di persone mentalmente instabili che finirono per trasferirsi all’interno del quartiere.

“Skid Row per me è uno dei posti più meravigliosi al mondo, pieno di persone belle e di rara onestà, come non ne ho mai viste da altre parti.”

Oggi gli abitanti di Skid Row vivono in condizioni pietose, affetti da malattie ormai debellate come il tifo, l’epatite A, a cui si aggiungono i casi di Coronavirus, rendendo l’emergenza in questa parte della città più visibile che mai, perché ben radicata e legata ad un problema ancora più grande, se si considera che in California gli affitti sono diventati cosi cari che lo Stato è, contemporaneamente, il più benestante del Paese e quello con gli standard di vita più bassi. Tanti dei senzatetto a Skid Row si stupiscono di ritrovarsi per strada, si ritrovano lì da un giorno all’altro. “Attraverso i miei scatti spero di restituirgli dignità e cambiare il modo in cui la società vede le persone senza alloggio che vivono per strada, in qualsiasi parte del mondo. Su queste grava infatti un forte stigma, che porta spesso a trattarle come subumani, mentre sono semplicemente delle persone, con desideri e bisogni semplici: amare, essere amati e vivere una vita di dignità e rispetto”. Risponde così Suitcase Joe – pseudonimo di uno street photographer – in un’interista a i-D, per spiegare cosa significhi per lui Skid Row e quale sia il messaggio che intende trasmettere attraverso le sue fotografie. Se dovesse presentarsi a chi non lo conosce, Suitcase Joe direbbe semplicemente di essere un fotografo di strada che passeggia per Skid Row, incontrando persone, e scattando loro delle foto, dopo aver passato “del tempo reale e di qualità”. “Skid Row è un luogo poliedrico. È un po’ di tutto. È molto bello ed è anche molto brutto, ma soprattutto è molto onesto”, dice Joe. Il termine Skid Row o Skid Road viene utilizzato generalmente per riferirsi ad un’area impoverita, tipicamente urbana, abitata da persone “sui pattini” (on the skids), dai poveri cioè, dai senzatetto e da tutte quelle persone considerate poco raccomandabili e dimenticate dalla società. Originariamente per Skid Row si intendeva il percorso lungo il quale i taglialegna facevano slittare i tronchi. Poi, per estensione, il termine ha iniziato ad essere usato per indicare quelle aree in cui si riunivano persone “senza soldi e niente da fare”. In senso figurato, infatti, indica lo stato di vita di una persona povera. “La comunità di Skid Row esiste da oltre cento anni, ma non credo che durerà per sempre, e per questo ho sentito l’esigenza di documentarla, per raccontarla e custodirne la memoria storica – spiega il fotografo a i-D – Quando ho suggerito ad alcuni fotografi di farlo, l’hanno considerata una pessima idea, per via dei pericoli del contesto. Così ho capito che dovevo essere io la persona che avrebbe documentato la vita di Skid Row”.

Da più di dieci anni Joe ha scelto di documentare con i suoi scatti questo angolo dimenticato di realtà, lasciando che siano le persone di Skid Row a parlare, senza filtri e mediazione, mostrando i loro volti consumati dalla vita, da chissà che incredibile storia. La voglia nasce dall’amore per la fotografia di strada in bianco e nero e da quella per i senzatetto: un qualcosa di “molto piccolo” cresciuto organicamente in qualcosa di “molto grande”. Perché il suo approccio consiste nel trascorrere del tempo con loro, conoscerli. Joe entra in contatto con la comunità al punto che si dimenticano della sua presenza. “È allora che ottengo gli scatti più sinceri”. Le sue foto aggirano il voyeurismo in favore della presenza, della vicinanza e dell’empatia. E’ un tipo di lavoro che scaturisce dall’immersione paziente. In linea con quella semplicità che spesso le persone negano, Joe tende a dare valore ai contenuti rispetto alla forma, postando le immagini su Instagram, sbocco principale per il suo lavoro: “La piattaforma è un’opportunità per condividere con il mondo intero quella realtà parallela che è Skid Row”, dice, immaginando che fra 100 anni qualcuno possa riguardare le sue foto e pensare alle persone che erano lì, capire le loro lotte, e cercare di ri-umanizzarle. Affascinata dalla cultura hobo, dalla fotografia documentaristica e di guerra, che cattura la vita reale, spera di contribuire, allo stesso modo, a rendere visibile quella fetta di mondo, e far conoscere la storia.

Quella di Joe è una narrazione di sopravvivenza, dalla quale lui stesso confessa di aver appreso tantissimo: “Una delle cose che ho imparato ad amare e ad apprezzare di Skid Row è che le persone che vivono lì […] vivono davvero nel presente. Se ho fame, mangio. Se sono pazzo, dico ciò che penso”. Se c’è una cosa che cambierebbe nel mondo è il modo in cui le persone considerano la salute mentale, di cui almeno “un terzo delle persone che vivono per strada” soffre di una qualche forma. “Questo dovrebbe essere il problema numero uno su cui istituzioni e organizzazioni dovrebbero concentrarsi”. Lui intanto continua a documentarlo, nonostante il contesto della pandemia gli impedisca di recarsi a Skid Row liberamente, per evitare il contagio, ma anche per proteggere la comunità stessa. Il suo progetto ha dato vita alla Suitcase Joe Fondation, associazione creata per soddisfare le numerosi richieste dei suoi follower su come poter aiutare i senzatetto di Skid Row, persone che si sentono abbandonate dal sistema. E’ una “missione di fiducia” che dà voce ai senzatetto, permettendo a loro di raccontarsi e a noi, che osserviamo, di capire quello che non abbiamo capito finora. Alla domanda “Immagina di dover scrivere una lettera a te stesso nel futuro. Cosa scriveresti?”, risponde: “Ciao Suitcase Joe, sei arrivato fin qui, continua a spingere“.

Photos by Suitcase Joe – Skid Row

Francesca Perrotta