Aristotele diceva che la democrazia può prosperare unicamente in un contesto di libertà, il cui esercizio implica strumenti e “conoscenze” speciali, che possono derivare solo dall’informazione. Quella che considerava come pre-condizione esistenziale della partecipazione democratica alla vita politica, nonché uno strumento di accesso ai meccanismi di controllo sociale del potere. Con il tempo il suo pensiero è andato sviluppandosi attraverso teorie di altri pensatori che, partendo dall’importanza di accesso all’informazione in quanto garante di forme di partecipazione più ampia, hanno evidenziato un secondo aspetto, che è quello dell’utilità. Non basta cioè semplicemente accedere all’informazione, ma anche tener conto delle modalità e forme di trasmissione della notizia, della tempestività delle sua acquisizione, e dall’intelligibilità della stessa. L’ideale aristotelico del libero accesso oggi può dirsi realizzato grazie alle nuove tecnologie, e ad Internet in particolare, che ha assunto le sembianze di un’agora. Quella piazza virtuale attraverso la quale lo Stato in primis ha l’obbligo di fornire le informazioni necessarie ai cittadini per la partecipazione ai processi decisionali. Si chiama “Trasparenza della Gestione Pubblica”, un concetto nel quale il pensiero aristotelico trova la sua massica espressione. La nascita delle piattaforme social ha trasformato, tra l’altro, l’individuo da mero destinatario in fonte stessa di informazione. Ecco perché la rete oggi rappresenta un punto di svolta nella società. Ignorare o riconoscere solo in parte tale “dimensione” non solo risulta anacronistico ma nocivo. Soprattutto per quanto concerne l’attività giornalistica. Eppure ancora si sente parlare di veri e proprio meccanismi di censura che limitano in forma inaccettabile la libertà di espressione. E qui il collegamento è automatico, oltre che necessario.
“La Grande censura cinese”
«Se si aprono le finestre per fare entrare aria fresca, è necessario aspettarsi che alcune mosche entrino», diceva Deng Xiaoping agli inizi del 1980. Le mosche che potrebbero contaminare e traviare il popolo: libertà di stampa, di informazione, di pensiero, di opinione. Così si spiega perfettamente il contesto politico e ideologico della censura di Internet in Cina, legato ad un periodo di riforma economica, che divenne noto come “economia socialista di mercato”. Una nuova politica che, nel ’94, ha introdotto Internet come inevitabile conseguenza e strumento di supporto, in quanto piattaforma di comunicazione comune e importante strumento di condivisione delle informazione. Tuttavia, mentre Internet risulta utile all’economia cinese, la sua stessa esistenza mina la stabilità del paese. Perché Internet ha anche aperto agli investitori stranieri, e da quel momento la Cina ha lottato per trovare un equilibrio tra questa nuova apertura al mondo occidentale e, contemporaneamente, mantenere le ideologie di quest’ultimo lontane dal suo popolo. Le “mosche”, per l’appunto, che il Partito Comunista Cinese aveva il desiderio di scacciare per proteggere valori e ideali propri. Un desiderio che ha trovato terreno nel Golden Shield Project: il progetto ingegneristico dello “scudo d’oro”, fatto di censura e di sorveglianza, che blocca dati potenzialmente sfavorevoli provenienti da paesi europei, gestito dal Ministero di pubblica sicurezza della Repubblica popolare cinese. Sperimentato nel 2003, entra in azione nel 2006. Ironicamente viene chiamato Great Firewell, un gioco di parole inglesi che richiama il ruolo di firewell della rete e il nome della Grande Muraglia Cinese (“Great Wall”), coniato per la prima volta nel 1997 in un articolo sulla rivista Wired. In effetti di vera e propria muraglia virtuale si parla, a cui tutti, non solo i cinesi, devono sottostare.
Allora, come oggi e sempre, il PCC voleva controllare il suo Paese, anche nell’era in cui le frontiere e il controllo totalitario sembravano svanire. Ed è della tecnologica che si è apertamente servito. L’ossessione del controllo cinese sul proprio territorio è molto invasiva e si è perfezionata negli ultimi anni: nulla deve sfuggire al controllo del Partito. Ma ancora peggio è la precisione maniacale con cui, di fatto, si spia nella vita degli individui, diventata talmente sviluppata che molti di questi non ci fanno neppure più caso. Tra i modi di censura del Paese rientra infatti l’autocensura: ciò che rende il Gret Firewell realmente efficiente. Non si tratta solo di complessa tecnologia, ma di vera e propria cultura che il sistema genera. La cultura dell’autocensura. I principali mezzi di informazione on-line in Cina, si attengono ai decreti del governo, impegnandosi a «rendere Internet un editore di teorie scientifiche […] mantenere la stabilità sociale, e promuovere la costruzione di una società socialista armoniosa». E lo stesso fanno multinazionali come Google e Microsoft, soggette alle norme di auto-censura. Non importa che vadano contro le ideologie occidentali, le dimensioni del mercato cinese sono troppo redditizie per far sì che le società ignorino queste opportunità. Del resto, è il successo dei regimi autocratici, e totalitari. Funziona così. Le persone aderiscono totalmente, o quasi, perché abituate dal regime e dalla sua ideologia. Non si pongono domande. E a sua volta il Partito Comunista, che controlla e gestisce l’informazione nel paese, se ne compiace. Nulla esiste al di fuori della sua narrazione, della sua visione. Internet è servito e serve per monitorare milioni di individui in un flusso unidirezionale.
Giada Messetti, sinologa e autrice di “Nella testa del Dragone”, che ha vissuto per molto tempo in Cina, spiega la complessità dell’universo cinese in una delle puntate del podcast giornalistico denominato Risciò, e ideato con Simone Pierani, giornalista, e responsabile degli Esteri per Il Manifesto. Nella puntata intitolata “The Great Firewall: la censura on line”, gli autori spiegano che in Cina il partito utilizza la propaganda e la censura per legittimarsi, per aiutare il popolo ad orientarsi adeguatamente e per favorire la stabilità politica e sociale. Si comincia con l’evitare temi sensibili, quali la democrazia, l’autodeterminazione dei popoli, il sesso e la pornografia, le informazioni sulla provincia dello Xinjiang, nel Nord della Cina (dove il controllo si è evoluto in genocidio), e poi le “tre T” (Tibet, Taiwan e Tienanmen). «Il meccanismo ormai è così radicato nella mente dei cinesi che sono gli stessi editori, le case di produzioni, e gli autori ad autocensurarsi o chiedere modifiche su testi che potrebbero offendere la sensibilità del partito». Messetti racconta di come, chiunque sia stato in Cina, abbia potuto constatare l’impossibilità di utilizzo di siti e app normalmente usufruiti nel proprio Paese. WhatsApp, Facebook, Twitter, Netflix, Instagram, Google, WordPress, Wikipedia, Pinterest, BBC, The New York Times sono proibiti dal Great Firewell, quel grande filtro che si occupa principalmente di bloccare dati provenienti dai paesi stranieri. Tutto deve essere “Made in China”. Per quelli invece creati all’interno del Paese, esistono i cosiddetti “poliziotti della censura” che, per conto di aziende private, controllano il web, cercando di ripulirlo da elementi negativi. Si è persino bandito l’orsetto della Disney, Winnie the Pooh, dalle maggiori piattaforme del paese (il Twitter e il WhatsApp cinese), poiché la fisionomia avrebbe potuto ricordare quella del presidente della Repubblica Xi Jinping. Mentre nel caso di impossibilità di blocco di determinate notizie, entra in campo un terzo filtro che si adopera per commentare, correggere, precisare, intervenire a favore del governo, in qualsiasi ambito di discussione online. Questo perché i funzionari cinesi si sono resi conto di come Internet non sia così facile da gestire. Pertanto provano ad influenzare gli individui con ogni mezzo possibile. Più che di cesura si dovrebbe parlare di manipolazione.
Precisamente, si tratta di “commentatori del web”, coloro che avevano il compito di arginare proteste online, percependo denaro per ogni commento lasciato, e la cui selezione seguiva (e segue) regole precise, tra cui la fedeltà al partito, la prontezza nel soccorrerlo, nonché la capacità di utilizzo di tutti le potenzialità della rete, inserendosi nei forum stranieri per contrastare la comunicazione spesso critica del “Celeste Impero”. Messetti e Pierano spiegano, inoltre, che nel 2013 la Cina aveva 2milioni di dipendenti nei dipartimenti governativi e nelle aziende private che si occupavano di controllare i contenuti online. Un numero quasi certamente aumentato negli ultimi anni.
Durante l’emergenza Coronavirus, gli autori sono tornati alla guida di Risciò per capire qualcosa in più sul perché dei ritardi della Cina nel comunicare all’Organizzazione mondiale della Sanità l’inizio della pandemia. Nonché sul modo in cui Pechino è riuscita a reagire, avviando un possibile ritorno alla normalità. Anche il New York Times e ProPublica hanno pubblicato una lunga inchiesta su come il governo cinese abbia, di fatto, manipolato a suo favore il discorso pubblico durante i mesi della pandemia. Basata su una gran mole di documenti (3.200 direttive, 1.800 relazioni) rubati da un gruppo di hacker dall’ufficio della Cyberspace Administration of China – l’agenzia cinese che si occupa della regolamentazione di internet (CAC) ad Hangzhou – l’inchiesta denuncia l’impiegando di migliaia di persone in attività di censura e propaganda online, con l’intento, fra gli altri, di ridurre la percezione di pericolosità del virus, proprio mentre questo si diffondeva in tutto il mondo. Uno degli ordini più importanti fu quello di evitare, per esempio, aggettivi come «letale». Inoltre, ai media fu ordinato di non dare evidenza alle notizie sulle donazioni e sugli acquisti dall’estero di dispositivi medici come mascherine, guanti e respiratori, per evitare di dare l’impressione che il paese dipendesse dall’estero e, soprattutto, distogliere l’attenzione dal fatto che la Cina stava accumulando grandi riserve di dispositivi medici ottenuti sul mercato internazionale, proprio mentre il virus si stava espandendo all’estero. Nei mesi successivi, la Cina avrebbe dato grande risalto pubblico alle donazioni di mascherine fatte ai paesi europei duramente colpiti dal coronavirus. Come scrissero il New York Times e ProPublica, è impossibile dire se una circolazione più libera delle informazioni nelle prime settimane di diffusione del coronavirus avrebbe cambiato l’andamento di quella che poi si è rivelata una pandemia terribile a livello globale. Dai documenti risulta che l’obiettivo del lavoro di censura e propaganda non era soltanto quello di evitare il panico, ma anche di dare l’impressione che la risposta del governo fosse efficiente. Fatto sta che attorno alla gestione della crisi da parte del governo cinese si è creato un consenso molto positivo tra la cittadinanza, favorito anche dal fatto che le misure severe adottate dopo il primo lockdown cinese sono riuscite a evitare un ritorno del contagio nel paese.
Andando avanti con gli esempi, stesso modus è toccato a Clubhouse, la audio-app su cui si erano sviluppate discussioni senza filtri di utenti cinesi su temi sensibili. Di rimando, molti utenti si sono visti ricevere un messaggio di errore nel tentativo di accesso all’app, e l’hashtag Clubhouse è scomparso anche dai trend topic di Weibo, il social media più popolare in Cina, controllato ovviamente dalla censura del Great Firewall. Mentre la vittima più recente è la regista Chloé Zhao, vincitrice agli Oscar 2021. La notizia della prima donna asiatica, e seconda in assoluto, con in mano la statuetta per la Miglior regia nella storia degli Academy Awards, è circolata ovunque, ad eccezione del Celeste Impero. I due maggiori organi d’informazione, quali l’emittente televisiva CCTV e l’agenzia di stampa Xinhua, non hanno fatto alcuna menzione del suo trionfo negli States. E stando a quanto riportato dal Washington Post, sui social la situazione non è migliore: tutte le ricerche legate a Chloé Zhao e a Nomadland sono state bloccate.
Ad incriminare la cineasta pare sia stata una dichiarazione rilasciata nel 2013, pubblicata sulla rivista Filmmaker Magazine, in cui definiva la Cina «un luogo pieno di bugie». Spariti quindi gli Oscar 2021 e con essi l’orgoglio per la vittoria della prima donna cinese. A sfidare i censori ci ha pensato il quotidiano in lingua inglese di Hong Kong, il South China Morning Post, dedicando ampio spazio alla vittoria di “Nomadland” e persino un pezzo alla censura nella madrepatria. Una scelta che probabilmente costerà cara al giornale e al suo proprietario, Jack Ma di Alibaba, entrato ormai da tempo nel mirino di Pechino per l’ampia copertura e il generale atteggiamento indulgente.
Diversi studiosi hanno parlato a giusto titolo di “capitalismo della sorveglianza”. Qui però siamo di fronte al “Comunismo della sorveglianza” cinese, che sfrutta la tecnologia secondo i propri fini di ispezione sociale e “lavaggio del cervello”. Che il controllo degli individui esista anche nell’Occidente liberaldemocratico lo sappiamo: nulla che possa essere paragonato con la critica al sistema totalitario cinese, che censura, controlla, manovra. Se la globalizzazione in Cina è arrivata, è di controllo.