Un motivo valido per cui si dovrebbe analizzare la favola di Biancaneve, et similia, lo ha spiegato ampiamente la scrittrice italiana Francesca Cavallo: «There are many problems with Disney’s fairytales», ha premesso l’attivista in un video pubblicato sul profilo Instagram, «The main one is the feeling at the core of Walt Disney’s poetic universe: nostalgia». Quella nostalgia che Cavallo considera “il sentimento centrale all’universo poetico di Walt Disney”, ma che evidentemente risiede anche nell’universo poetico di molti esseri umani. Treccani ci dice che il termine nostalgia deriva dalla combinazione di due parole greche: “álgios” e “nóstos”, “dolore” e “viaggio”. Il nostalgico è quel viaggiatore che desidera ardentemente tornare in un luogo abituale, che ricorda con effetto, ma che ora è lontano. Ulisse è, in quest’ottica, l’incarnazione della nostalgia: colui che peregrinando verso i mari continuava a volgere il suo sguardo verso Itaca, casa sua. Un desiderio dolce-amaro che al contempo lo induceva a perseverare, a proseguire per la sua strada, quella verso casa, appunto. Perché ciò che viveva come un ricordo poteva tornare a esistere, se davvero lo desiderava. Ecco perché, pur assumendo le sembianze della tristezza, la nostalgia risuona oggi più come una “risorsa esistenziale”, qualcosa di cui abbiamo effettivamente bisogno. E’ una calamita che ci attrae verso il passato senza trasportarci indietro, piantandoci nel presente con quel pizzico di speranza che qualcosa possa tornare. Perché parte di noi, ciò che dà senso al presente.
Non solo “Biancaneve”
Fu nel XVII secolo che il termine nostalgia entrò nel vocabolario europeo. Il primo studioso ad analizzare il sentimento dal punto di vista clinico fu Johannes Hofer, uno studente di medicina che nel 1688 scrisse la tesi Dissertazione medica sulla nostalgia. Partendo dall’espressione francese «mal du pays» e dal termine tedesco «Heimweh» (dolore per la casa), Hofer coniò il vocabolo greco per riferirsi al cambiamento psichico e fisico che i mercenari svizzeri, in servizio nell’esercito francese, subivano poiché costretti a vivere lontani dalla loro patria. Essi cadevano in uno stato depressivo talmente acuto che nessun intervento medico poteva servire. La nostalgia era curabile solo modificando le condizioni di vita. Di conseguenza la casa assumeva simbolicamente funzione di malattia e cura insieme. Ecco perché la nostalgia era inizialmente considerata un disturbo psichico, una patologia legata alla sensazione di frammentarietà tra presente e passato. Bisogna assistere alla nascita della cultura di massa per arrivare ad una vera e propria redenzione del suo significato, ad una visione cioè di nostalgia pregna delle caratteristiche con cui la intendiamo oggi. Una nostalgia che non è più disillusione, disincanto, ma rifugio, consolazione, incoraggiamento, certezza. È in quest’ottica che il livello psicologico si avvicina a quello politico. La nostalgia può dirsi una delle principali forze della politica globale. Edoardo Campanella, autore del libro L’età della nostalgia, scritto in collaborazione con Marta Dassù, lo spiega: «I principali fenomeni politici che hanno sconvolto il mondo, di cui sentiamo ancora oggi l’impatto, hanno un tratto comune: quello della nostalgia, per un passato più o meno glorioso, un passato nel quale ci si sentiva più protetti, più ricchi, più potenti». Per menzionare solo alcuni degli esempi più lampanti, Campanella cita «la nostalgia dell’impero britannico nel caso di Brexit, o le ambizioni ottomane di Erdogan in Turchia, quelle neosovietiche di Putin o l’impero di Xi Jimping», spiegando come la nostalgia riesca in ogni caso a tenere insieme tutti questi fenomeni, di destra quanto di sinistra, populisti e non. L’età della nostalgia coglie quanto la retorica nostalgica sia in grado di catalizzare un senso di malessere, quello stato d’animo che di fatto connota il presente. «L’Italia è definito il Paese più nostalgico d’Europa, l’80% delle persone sopra i 60 anni pensa che si vivesse meglio negli anni ‘60», spiega Campanella. Perché? «Perché la gente fatica a proiettarsi nel futuro. Preferisce rifugiarsi nel passato», ecco perché nostalgici. Perché il passato è plasmabile. «Ricordiamo quello che ci torna comodo». Ed è di questo malessere psicologico collettivo che i politici più scaltri, quelli nazionalisti, si servono, sfruttando tale sentimento a proprio piacimento. Laddove il mondo tende a muoversi in una direzione che non ci piace, è bene tornare alle nostre origini, che sono invece fonte di sicurezza. Il libro di Campanella e Dassù designa infatti la nostalgia come un’arma politica, difensiva, offensiva o cooperativa, che alla fine conduce «all’idea della riconquista della sovranità perduta che, se riconquistata, permette di proiettarsi nel futuro, guardando però al passato».
“Make great America again” sperava Trump. Eppure, come Francesca Cavallo faceva notare nella sua riflessione rispetto alla polemica aizzata sul bacio “non consensuale” del principe a Biancaneve, «se la frase “Make America great AGAIN” non l’avesse pronunciata Donald Trump, sarebbe potuta essere lo slogan della Disney World». Perché in effetti i film della Disney che hanno ottenuto più successo sono gli stessi permeati di questa “retorica nostalgica”. Quella che guarda al passato come rifugio, sicurezza, protezione. La nostalgia non è altro che casa. Quella in cui molti sperano ancora di tornare guardando le fiabe, proiettandole nel mondo dei bambini. Ma cosa succede se quella casa inizia a frantumarsi perché, in realtà, costruita su mattoni di errori e pregiudizi? Come quello di separare in maniera rigida il bene e il male, così da essere facilmente compresi da un bambino. Ma questa non è solo semplificazione, è schematicità dei ruoli che si traduce in stereotipo, se finito il film non si spendono due parole: essere brutti, nel mondo Disney, vuol dire essere cattivi; mentre le donne sono quelle che rinunciano a tutto (persino alla voce) per un uomo, perché è l’uomo a salvarle, o a “svegliarle”. Tale schematicità inconsciamente si proietta nelle nostre relazioni interpersonali, nel modo in cui ci approcciamo agli altri, nel tipo di rapporto che ricerchiamo, nella concezione di amore che enfatizziamo, nonché nel modo in cui pensiamo si debba manifestare. Quella delle fiabe è la “storia romantica” che si impossessa del nostro inconscio inducendoci a cercare (ed accettare) relazioni da cui, con legittimo egoismo, si dovrebbe invece scappare. Ma chi scappa è alla fine dipinta come la parte lesa: quella che non ci ha creduto abbastanza, che non ha aspettato la trasformazione dell’uomo in principe, che ha distrutto l’ “happy ending”, e non ha creduto nell’amore eterno.
Ciò detto, nessuno censurerà le fiabe, se non altro perché ognuno di noi, grande o piccolo che sia, ha bisogno di una sfumatura fantastica nella propria vita. L’immaginazione è qualcosa di umano. Per i bambini, soprattutto, rappresenta un bisogno, ciò che li aiuta ad orientarsi in un modo ancora troppo grande e complesso. La fiaba si adegua in qualche modo alle esigenze del bambino, assumendo un importante ruolo nel processo di crescita poiché non solo lo divertono e coinvolgono, ma lo aiutano a conoscere sé stesso e il mondo che ha intorno, a comprendere e ad esprimere emozioni, a guardare la realtà e a trovare al contempo una soluzione per modificarla. Le fiabe rappresentano un’importanza non trascurabile perché di esse si ricordano le varie trame, nonché la precisa personalità dei personaggi in cui i bambini tendono ad immedesimarsi, trasportandosi poi nella realtà. Gran parte della conoscenza di un bambino viene acquisita attraverso le fiabe. Le fiabe sono, anzi, un canale attraverso cui far conoscere la società al bambino, il quale così apprende le caratteristiche del mondo naturale, e della vita. Comprende le più semplici relazioni interpersonali, impara a distinguere verità e bontà da falsità e cattiveria. Tutte associazioni che, archiviate nella mente, possono determinare una premessa alla conoscenza di determinati valori.
Che il pensiero del bambino a quell’età sia ancora limitato lo diceva Piaget, celebre esperto di psicologia infantile, il quale riscontrava anche un generale egocentrismo. Ma una volta superata la fase dell’infanzia, il bambino inizia gradualmente e progressivamente a sviluppare un pensiero logico, cominciando a leggere le fiabe con gli occhi della realtà. La realtà odierna, in cui non è più concepito promuovere un unico modello di famiglia, quello cioè tradizionale. Nelle fiabe si parla sempre e solo di matrimonio fra uomo e donna. L’uomo che, tra l’altro, sconfigge il cattivo, salva la principessa e vissero felici e contenti. Oggi non va esattamente così.
Già nel 2014, in un opuscolo diffuso dal Dipartimento per le Pari Opportunità si sconsigliava agli insegnanti di leggere ai bambini le fiabe. Dunque che oggi si dica che il bacio del principe di Biancaneve venga dato senza consenso non ha motivo di diventare polemica o attacco al mondo della Disney, se non per qualche clic in più. Chiunque ritenga che le fiabe siano state messe sotto accusa è vittima dei giornali italiani che giocano al clickbait veicolando una notizia fuorviante. Katie Dowd e Julie Tremaine, autrici della recensione fatta sul sito SFGate (testata locale online dell’area di San Francisco Gate) non hanno fatto altro che commentare la nuova giostra Snow White’s Enchanted Wish posta nel parco divertimenti di Disneyland di Anaheim (California), scrivendo che la scena del bacio era stata «eseguita magnificamente, a patto che la si guardi come una fiaba, non come una lezione di vita». La presunta polemica, arrivata sull’onda delle critiche al “politicamente corretto” sta tutta qui: in un commento che intende sottolineare quanto le fiabe siano e saranno strumento di apprendimento, se solo iniziamo ad analizzarle e comprenderle con gli occhi del 2021. Il che implica contestualizzare, capire le differenze tra passato e presente, sviluppare spirito critico, non ripetere gli stessi errori, comprendere la complessità delle cose. Perché ciò che ci viene inculcato condiziona la nostra vita. Perché mettere in dubbio ciò che consideriamo “normale” serve a comprendere la complessità di ciò che siamo. Perché «idolatrare quel passato significa scegliere di ignorare la violenza, la brutalità assoluta che le minoranze femminili e le persone di colore hanno sperimentato mentre Cenerentola ballava con il suo principe – ha rimarcato Cavallo su Instagram – Significa ignorare il fatto che le porte di quel castello erano sempre chiuse per tante persone, cioè persone lgbt+, persone con disabilità, donne indipendenti e persone di colore. Queste persone, che iniziano a far sentire la loro voce, non hanno nostalgia del bello dei tempi, perché per molti di noi quei tempi non sono mai stati buoni». Ecco perché fondamentalmente è inutile focalizzarsi sul singolo bacio tra principe e principessa quando è l’intero universo delle fiabe che non ha ragione d’essere mitizzato, ma semmai spiegato.
Dal 1973, anno in cui uscì Snow White and the Seven Dwarfs, la Disney ha fatto passi da gigante nel tentativo di diversificare trame, personaggi e team di produzione, provando ad includere etnie e culture diverse interpretate dai personaggi principali: solo per cintare quello più recente – Raya e l’ultimo drago – la protagonista è asiatica. Tuttavia, anche in questo caso sono arrivate alcune critiche. Nel marzo scorso, il giornalista Brian Anthony Hernandez, in un articolo su Mic faceva notare come nel 2009, il film La principessa e il ranocchio, per il solo fatto che per la prima volta nella storia dell’animazione Disney la più bella di tutte era nera, fu accolto come «pietra miliare». Ciò su cui faceva riflettere Hernandez era tuttavia la trasformazione della principessa Tiana in ranocchio dopo solo 30 minuti dall’inizio. “Anche se forse la più importante, non è stata la prima volta che la Disney ha trasformato le persone di colore in animali – si legge, inoltre, nell’articolo – Nel 2003, in Brother Bear (Ragazzo Orso), Kenai, un ragazzo Inuit, diventa un orso arrabbiato. Nel 2000 in The Emperor’s New Groove (Le Follie dell’Imperatore), Kuzco, un imperatore Inca, viene trasformato in un lama ansioso». Nell’ottica in cui questi film non sono solo un’animazione, ma qualcosa che ha reale impatto su chi guarda, sembra trattarsi di quello che il critico culturale Ryan Michell ha definito “microaggressione disumanizzante”: «Questo è il potere della rappresentazione e non dovremmo prenderlo alla leggera». Come riportato su Mic, venne avviata anche una petizione su Change.org da parte di tante delle persone appartenenti alle comunità che l’industria dell’animazione cerca di rappresentare, le quali facevano notare come i personaggi neri non vengano mai rappresentati in ruoli decisionali, ma appunto solo disumanizzati. «È irrispettoso ed è giusto non accontentarsi di queste briciole di rappresentanza – si legge nella petizione – Separare i personaggi neri dai loro corpi neri e l’incapacità di vedere la loro innata umanità deve finire».
Chiunque ne sia venuto a conoscenza avrà senz’altro gridato ancora alla “dittatura del politicamente corretto” o, se vogliamo, del “civilmente corretto”. Ma la verità è che minimizzare il pollitically correct, appellarsi alle intenzioni, così come definire pesante un atteggiamento che intende “mettere i puntini sulle i” vuol dire fingere di non vedere quanto la tolleranza sia oggi ai livelli zero. Siamo ancora talmente retrogradi su concetti che dovremmo ormai aver acquisito, che non c’è niente su cui è possibile sorvolare, su cui non è necessario aprire gli occhi, alzare la voce e battersi. I risultati non si vedranno oggi, non li vedremo noi né i nostri figli e forse neanche i figli dei nostri figli: smantellare una cultura richiede tempo. Quel giorno sarà bello ironizzare, riderci su, perché vuol dire che potremo permettercelo, e a quel punto sarà palpabile il sarcasmo. Oggi ancora no.
Francesca Perrotta