Istituito nel 2015, il Women20 è l’engagement group del G20 che guarda all’inclusione delle donne nella società civile a partire da un cambiamento di prospettiva che vede le donne non come “persone svantaggiate da includere”, ma come “la metà del mondo”. Una visione stimolante dell’emancipazione femminile che intende rimarcare il significato dell’autoaffermazione in tutti i sensi: anche, e non solo, nei ruoli decisionali. Quando si parla di parità di genere si parla infatti di parità di diritti a tutto tondo, inclusi quelli alla salute. Un concetto non del tutto banale, considerato che, ancora oggi, le donne subiscono discriminazioni in ambito medico – dall’aborto alla violenza ostetrica –, e che la medicina è stata per anni quasi esclusivamente appannaggio del mondo maschile, nell’ambito dell’università, della ricerca e della cura. Il Fattore X, primo libro sulla medicina di genere scritto dalle donne e pensato per le donne, spiega come per la scienza medica uomo e donna siano da sempre equivalenti, fatta eccezione per “alcune visibilissime evidenze anatomiche”. Un assunto a causa del quale viene spontaneo pensare che quello che va bene per l’uomo, andrà bene anche per la donna. Perché? Perché gli uomini sono considerati fisiologicamente più stabili (non avendo la ciclicità ormonale tipica delle donne), e dunque quando si tratta di studiare la sicurezza e l’efficacia di un farmaco, condurre studi clinici esclusivamente sul sesso maschile risulta più facile e meno problematico che condurli anche su quello femminile. La maggior parte della ricerca scientifica è stata condotta sull’uomo e poi traslata sulla donna come se l’uomo fosse il riferimento naturale.
Cos’è la medicina di genere?
Di medicina di genere si è iniziato a parlare con un certo ritardo – solo alla fine degli anni Ottanta – quando ci si è resi conto che le donne non ricevevano cure mediche adeguate, in particolare (ma non solo) per quanto concerne le malattie cardiache, ancora oggi considerate malattie prevalentemente maschili, al punto che, nel caso delle donne, si parla spesso di “sintomatologia atipica”. Fu da Bernadine Patricia Healy che arrivò la prima vera denuncia sul tema. La cardiologa americana, prima donna ad essere nominata Direttore del NIH, nel 1991 scrisse per New England Journal of Medicine un noto articolo, intitolato “The Yentl Syndrome”: Yentl era l’eroina di una storia del Premio Nobel Isaac B. Singer, costretta a rasarsi i capelli e vestirsi da uomo per poter accedere alla scuola ebraica e studiare il Talmud, uno dei testi sacri dell’Ebraismo. La Healy paragonò la sua storia alla discriminazione che aveva constatato nell’Istituto di Cardiologia che dirigeva, in cui le donne erano meno ospedalizzate e meno sottoposte a indagini diagnostiche e terapeutiche rispetto agli uomini, sottolineando inoltre quanto fossero poco o per nulla rappresentate nelle sperimentazioni per introdurre nuovi farmaci e tecnologie.
Quanto sia stato dibattuto questo articolo non serve dirlo, ma certamente costituì un importante punto di partenza per dare forza alla medicina di genere in quanto approccio innovativo e indispensabile per studiare l’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso), socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona. Perché è la persona, con tutte le sue peculiarità, che deve essere al centro del sistema sanitario.
Negli ultimi 20 anni la “sex and gender medicine” – ormai diffusamente sostituita dal più breve “medicina di genere” – ha suscitato un interesse crescente anche se continua a non essere inquadrata nel suo reale significato: medicina di genere non vuol dire infatti soffermarsi sulle patologie più frequentemente diffuse nell’uomo o nella donna o, peggio, soffermarsi sulle quelle che colpiscono prevalentemente le donne. La medicina di genere, al contrario, intende analizzare e comprendere in che modo le malattie si manifestano nei due generi, valutando, in particolare, le differenze di genere rispetto ai sintomi, la necessità di differenti diagnosi e interpretazione dei risultati, le differenze nel modo di reagire ai farmaci e – perché no – la necessità di utilizzare farmaci differenti. La medicina di genere nasce per sostenere la salute della donne, ma soprattutto per studiare le differenze rispetto agli uomini, e aiutare a concretizzare i principi di uguaglianza in medicina. Essa intende garantire le cure a tutti gli esseri umani, indipendentemente dal loro sesso. Cure che tengano conto della persona nella sua interezza fisica, psicologica e sociale. Ed è dal riconoscimento delle diversità che si può giungere alla vera uguaglianza: una convinzione cui si appella l’istituzione della commissione Equity in Health, proposta da W20, presieduta dalla professoressa Flavia Franconi – nominata anche componente per l’Osservatorio dedicato alla medicina di genere presso l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) –, e composta dai massimi esperti italiani e internazionali in tema di salute di genere. L’obiettivo è quello di produrre un documento da sottoporre ai leader del G20 per migliorare la sfera della salute femminile, contrastando le disuguaglianze di genere nei sistemi sanitari.
“Spesso ci si dimentica che la salute, un bene primario, non è un valore isolabile, ma è influenzato oltre che dal nostro corpo, da fattori psicologici, comportamentali, culturali, ambientali, geografici ed economici. I fattori biologici e quelli di genere sono strettamente interconnessi e spesso non districabili”, ha spiegato Franconi, sottolineando quanto, da questo punto di vista, la pandemia abbia avuto un impatto rilevante sulle donne perché “più precarie e perché lavorano nei settori più colpiti dal lockdown”. “In questa situazione – ha aggiunto – peggiora la salute mentale delle donne, quindi la malattia non deriva solo dal corpo. Per curare queste donne bisogna adottare politiche che sostengano le donne e non solo trattarle come i farmaci”. Ecco perché la medicina di genere è, secondo Flavia Franconi, “la vera medicina personalizzata e olistica”.
È la pandemia ad aver costituito infatti il banco di prova, considerato quanto l’infezione da Sars-Cov-2 abbia avuto – e ha – delle ripercussioni diverse nell’uomo e nella donna. La presidente del Centro Studi Nazionale su Salute e Medicina di genere Giovannella Baggio, ad esempio, ha spiegato che le donne sono più “resistenti” al contagio da Covid-19 perché presentano un sistema immunitario più reattivo. Mentre la ricerca redatta dagli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) sottolinea come il genere sia “la lente attraverso cui è doveroso osservare le dimensioni di salute e di malattia delle persone”. Nel documento, in particolare, si legge che le “condizioni pre-esistenti, tra cui la patologia cardiovascolare, il diabete, l’obesità, la broncopneumopatia ostruttiva, i tumori, stati di immunosoppressione, sono alla base di una vulnerabilità biologica comune ai due sessi che, però, appare modulata da comportamenti e stili di vita che dimostrano una disparità di genere”.
Sembra dunque arrivato il momento di tener conto dell’asimmetria tra uomo e donna, non solo a livello biologico e riproduttivo, ma in virtù delle caratteristiche e dei bisogni specifici di ogni essere umano. Questo tipo di approccio risulta funzionale dal punto di vista medico, ma anche e soprattutto etico. Poiché quando si parla di malattie, terapie e sperimentazioni dei farmaci, è necessario considerare la centralità del paziente e quindi la personalizzazione del percorso di cura.