“Pronti, annamo? Ma ‘ndove?”. Il drappo rosso del sipario è aperto: un marinaio in canottiera a righe da bagnino, fiori al collo di benvenuto hawaiano, e una bionda in tulle color fuoco. La storia del cinema passa tra le note di un cabaret di avanspettacolo, con il ritornello del celeberrimo frutto divenuto un lasciapassare: “Ma ‘ndo vai se non ce l’hai?”. La storia di “Polvere di stelle” è tutta qui, nel sogno di un successo che arriva; assordante come il fragore di un applauso, passeggero e mendace come l’illusione della celebrità. Polvere, fumo, frantumi d’oro, così vedeva la gloria l’ideatore del film: Alberto Sordi, romano di Trastevere. Un comico, una maschera grottesca; ‘i difetti dell’italiano’ le sue doti vincenti, tra umiltà e vanagloria.
“Un tipo nuovo questo Sordi che viene dalla radio”, diceva Zavattini di lui. “Una faccia timida, ma i modi intraprendenti di uno che vuol mettersi in mostra spesso senza riuscirci“. De Sica ne lodava l’attore: “Ha tutta la gamma di sfumature della comicità, soprattutto quelle dei timidi che alla fine vincono, o dei classici eroi per forza, che quando li vedi non gli metteresti in mano una lira“. Nonostante queste critiche, non troppo incoraggianti, il pubblico s’innamorò di Alberto Sordi. Di quell’espressione buffa, finemente impacciata davanti l’inquadratura.
Polvere di stelle, la materia dei sogni
Alberto Sordi frequentò i teatri dell’avanspettacolo per almeno una decina d’anni, e quando Ruggero Maccari nel 1973, gli sottopose il soggetto di una compagnia di grandi spettacoli, decise di dirigerlo e di interpretarlo. Così nacquero Mimmo Adami e Dea Dani; marito e moglie, Alberto Sordi e Monica Vitti, nelle vesti di capocomico e soubrette. Scalcinati intrattenitori da palcoscenico in quel trionfo di “Polvere di stelle”. In una Roma occupata, si cela la voglia di vivere e di divertirsi, di un paese che nutriva il sogno di libertà. E si passava alla sera, qualche lieta ora tra le poltrone di un teatro, a dimenticare, complici i gusti semplici dei militari. La compagnia era pronta a replicare! Sotto i bombardamenti, con il rischio di essere fucilati, ‘due spettacoli’ fatti per rallegrare le truppe alleate. Con quella malinconia, con la gloria sgangherata, sempre ad un passo dalla miseria. Che arrivava però, a toccare le stelle. Questa la trama di un film capolavoro, creato con gli occhi e l’anima di Alberto. “Dea, stima e amore è l’unica ricchezza che te posso dà“. La dichiarazione di Mimmo Adami brilla ancora di sincerità.
Mentre tutti in America veneravano Marlon Brando, con un giubbotto di pelle saldo sulla motocicletta, Sordi faceva vergognare gli “americanizzati”. Con “Un americano a Roma“, Nando Moriconi, aveva messo in ridicolo quella generazione che copiava gli oltreoceano. E, da quelle imitate sembianze, tornavano così, a parlare come erano cresciuti. Una galleria completa di seduttori stravaganti, mariti senza soldi ma appassionati, scapoli, vigili convinti. Negli anni ’50 il tipico eroe, che raffigurava Alberto Sordi, aveva l’arte d’arrangiarsi per mestiere e una collezione di imperfezioni: per ognuna una faccia. Pigro, indolente, svagato, vizi costruiti attorno al suo volto.
Polvere di stelle, finissima, caduta fino a noi
Da Porta Maggiore a Porta Romana, il motorizzato Otello Celletti volava impavido sulle due ruote. Casco in testa, come un bersagliere. Con quella pelle nera, che sembra cuoio, che lo fasciava impettito come in un busto. L’andatura di un passo normale sarà un’impresa. La carriera di un ‘pizzardone‘ iniziava in quel crocevia, sul selciato di sampietrini. Guanti bianchi e la mimica di un direttore d’orchestra. Così correva il fischio più orecchiabile di Roma: “Auguri Ote’. Come stai bene. Metti paura!“.
Quando al cinema si faceva la fila per vedere “Ben Hur” e “La dolce vita“, nel 1960, Alberto Sordi sfidava i botteghini stando al passo con gli incassi. La Roma papalina d’inizio ‘800, aveva le vesti del “Marchese del Grillo“. Onofrio, aristocratico tra amorazzi e scherzi colossali famosi in tutta la città, con la voce e le galanterie di Alberto Sordi: “Quanno se scherza, bisogna ésse seri!“. Figura che resterà eterna, insieme al suo perfetto sosia nel film, l’alcolizzato Gasperino ‘er carbonaro‘. Quei ‘rigatoni co la payata’, esisteranno veramente? Nel completo ‘avana’, col caschetto in testa come a caccia di tigri della Malesia, Sordi era il genio degli affari di “Finché c’è guerra c’è speranza“. La ventiquattrore di Pietro Chiocca, riluccicava di ogni sciccheria bellica. L’idea del ‘cattivo’, era vinta dall’eccesso di umorismo. Non si tirò indietro, Albertone, con coraggio volle essere regista di un personaggio che appariva subito disumano. Ma con la delicatezza di un sorriso, con il sarcasmo e l’ironia, raccontava la verità per smuovere le coscienze.
Quella voglia di ballare..
Affarista e donnaiolo, miglior maestro di avventure di suo figlio. Tra racconti di abbordaggi romanzeschi, nella sua sterminata classe di uomo d’antan, iniziava così la scuola per Cristiano. L’intrigo comico papà-figlio, vede Sordi e Verdone per la prima volta insieme sul grande schermo. Alberto,regista del film, idea un impacciato, scordato dai tempi, figlio-cocco di papà, con la fissa per l’imitazione degli ‘animali notturni’. E da “Fumo di Londra” non ci siamo mai ripresi. Gentleman britannico, bombetta e ombrello sotto braccio, pipa, maschera la propria italianità. “Goodbye, my London town!“. Sarà l’amaro saluto di Dante Fontana dal portellone di un’aereo, alla Londra che l’ha inghiottito ed estasiato di vita. Piero Piccioni poetizza in note quel momento. Resta quel sogno su di una terrazza, che sembrava affacciarsi sul mondo. Dove danzano, un po’ scombinati ma con sentimento, Sordi e la Vitti; lui fa il suo celebre salto, lei lo segue a un passo e una giravolta, con le stelle cucite sul vestito azzurro. Sarà eterno, nel cuore di ogni spettatore. ‘Fumo e polvere’, fino alle stelle.
Federica De Candia per MMI e Metropolitan Cinema. Seguici!