Non ce la possiamo fare: non solo siamo l’ultimo paese europeo a non avere il matrimonio egualitario, non solo le liste elettorali dei nostri seggi non tengono conto delle persone transgender, ma le donne coniugate vi sono registrate col cognome del marito. Automaticamente, “così, de botto, senza senso”: lo sancisce infatti la legge 1058 del 7 ottobre 1947.

Quindi, se io un domani decidessi di sposarmi, le volte in cui mi recherei a votare figurerei nella lista del mio seggio come “Chiara Cozzi IN [cognome marito]”: perché il matrimonio è un contratto, nello specifico di compravendita. Ma io, donna, non acquisto niente, perché sono la merce, ed è mio marito a possedermi e a mettermi una targhetta addosso che attesta che sono sua e di nessun altro.

Lo stesso accade al contrario? Ovviamente no. Gli uomini da sempre sono visti come potenziali libertini, poiché in dovere di assecondare una cultura del possesso e non solo: il patriarcato da loro vuole che assecondino gli istinti sessuali più primitivi, perché non sono in grado di ragionare con la propria testa; non sono visti come esseri senzienti e dotati di raziocinio, ma come animali, come predatori: una rappresentazione svilente.

Ma perché dobbiamo stare ancora dietro a una legge di 74 anni fa, quando i tempi erano diversi e (soprattutto) il divorzio non era ancora legale e vigeva ancora il matrimonio riparatore? L’ha chiesto al proprio seggio la strategist Spora, alias Veronica Benini, che si è sentita rispondere “Per far sapere che è sposata”. Ma a chi dobbiamo farlo sapere? A chi interessa?

E pensare che io avrei voluto unirmi civilmente per veder garantiti i miei diritti in caso a me e o al mio ragazzo succedesse qualcosa. Mi sa che ci ripenso.

Chiara Cozzi

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Ph: quotidianodipuglia.it