Erano stati compagni di scuola e non lo ricordavano. Quando il regista si recò a casa del compositore, trent’anni dopo, scoprì il suo amico delle elementari di Viale Trastevere. “Lo riconobbi dal movimento del labbro inferiore, mi ricordò subito qualcosa“. Raccontò Ennio Morricone nel suo libro “Inseguendo quel suono” del 2016. “Passammo tutto il pomeriggio e la sera insieme. Andammo fuori a cena a Trastevere da Filippo il Carrettiere, mi invitò Sergio e pagò lui. Poi ci recammo a un piccolo cinema di Monteverde Vecchio dove davano ‘La sfida dei Samurai’ di Kurosawa.” Ricordandone la buona fede, Sergio Leone decise di affidare a Ennio la colonna sonora di “Per un pugno di dollari“. Era il 1964. Il primo film insieme. La leggendaria unione si era compiuta.

Impossibile immaginare Ramón di “Per un pugno di dollari“, dire, senza la musica che sottolinea azioni e sentimenti più del dialogo, il vecchio proverbio messicano: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto». Ennio Morricone, diplomato in tromba al conservatorio di Santa Cecilia, e Sergio Leone rivoluzionarono il western. Due caratteri scontrosi, introversi, stranamente per essere due romani. Apparentemente un po’ musoni. A Morricone piacque particolarmente la figura di Clint Eastwood in “Per un pugno di dollari“, che era Joe: questo antieroe che ricordava, per certi versi, quello del bullo trasteverino.

Trilogia del dollaro e Spaghetti western

Leone chiedeva per il film una ‘litania’, qualcosa che rispecchiasse Il Sud del Texas: “Un luogo appassionato e caldissimo. Là c’è un miscuglio di Messico e America. Che dà ai loro riti funebri e alla loro religione un tono e un’atmosfera particolari”. Una sorta di ‘danza della morte’. Non importava il lugubre, contava l’effetto trascendente. “Guarda, se vuoi mettere nel film quel lamento, io non voglio averci niente a che fare”, rispose orgoglioso il Maestro compositore. Presero vita le sfumature del western, i toni minacciosi, i flauti cupi e il fischio. E ancora, spari e cavalli al galoppo. I rumori della natura diventavano effetti musicali. Impossibile un primo piano di Sergio Leone, che stringe fino a mezza fronte, senza il sottofondo della tromba, la chitarra a due corde o l’ocarina, inimitabile contrassegno. Anche il titolo viene proiettato in corrispondenza del suono di uno sparo.

Per un pugno di dollari“, fu il primo film di questo genere, a essere proiettato negli Stati Uniti d’America. E molti membri della troupe e del cast si diedero finti nomi americani, che avrebbero reso più ‘credibile’ un film western: Sergio Leone usò il nome Bob Robertson (che significa figlio di Roberto Roberti, in memoria di suo padre Vincenzo, noto con il nome d’arte Roberto Roberti), e Ennio Morricone firmò la colonna sonora con lo pseudonimo Dan Savio, mentre Gian Maria Volonté appare con il nome John Wells. “Ora devi solo procurarti qualcuno che sappia fischiare”. Disse il regista. E fu storia con Alessandro Alessandroni, che ebbe il soprannome di ‘fischio‘, coniato per lui da Federico Fellini. “Ho scoperto che il mio fischio era ottimo al microfono, perché il microfono non ama il respiro e io ho un respiro breve… Usavamo strumenti inusuali per un western. Un flauto di legno, una frusta, campane. La maranzana siciliana: Dang. L’uso degli strumenti era diverso dall’approccio tradizionale e dava origine a una specie di folk italiano”. Questo il ricordo del maestro romano Alessandroni.

Giù la testa per Leone e Morricone

Ma Morricone non apprezzò particolarmente il film: per lui, “Per un pugno di dollari” fu il peggior girato di Leone, e la peggior colonna sonora che avesse mai scritto. Arrivò “C’era una volta in America“, era il 1984. Le storie di vita vissute, di gioie di dolori, nella New York del 20° secolo fino gli anni ’80, narrate da Leone, sotto il trasporto dell’indimenticabile tema di Deborah, scritto da Morricone. La versione estesa del film riesce a divenire leggera, sognante, grazie al sottofondo da incanto. “Leone era stonato, non era capace di cantare“. Solo la moglie Carla, era una danzatrice, e aveva un profondo senso musicale.

Ma Leone sapeva perfettamente quel che voleva. Non uno spartito scelto a caso, ma commissionato appositamente per i suoi film. Affinché la sceneggiatura nascente, potesse avere una melodia personalizzata. Non solo un accompagnamento, ma una etichetta sulle immagini, perché brillassero di luce propria. In una congiunzione tra le note e le scene, occhi e mente. “Credo si possa dire che è il più americano dei film italiani”. Sergio Leone andava fiero di “C’era una volta in America“, che non ottene subito il successo.

Il sogno americano di due romani

Nel quartiere di Brooklyn, a New York, esiste un pezzo di strada, precisamente all’angolo tra Washington Street e Water Street, dove il tempo si è fermato. Il Manhattan Bridge, divenne monumentale sotto quattro note, sempre le stesse, e il flauto di Pan. Con Ennio erano partiti da una canzone dell’epoca, Amapola, successo del 1920 del compositore spagnolo José Maria Lacalle. Che è suonata dall’orchestra nel ristorante deserto in cui Noodles porta a cena Deborah: “Volevi un ristorante sul mare? Fuori stagione sono chiusi, l’ho fatto aprire per te”. La scena venne girata nella Sala degli Stucchi dell’Hotel Excelsior al Lido di Venezia. Non troveremo mai queste musiche in un jukeboxe o in un Karaoke. Ma le note nel film sono memoria: i silenzi di De Niro, il suo “Sono andato a letto presto“, non hanno bisogno di spiegazioni, solo musica. Il tuo ombelico è una coppa rotonda dove non manca mai il vino..”, e “Nessuno ti amerà mai come ti ho amato io. C’è una musica, anche se non ce ne siamo accorti.

Federica De Candia. Seguici sempre su MMI e Metropolitan Cinema!