La mafia uccide il cronista Beppe Alfano: Poco prima delle 22,30 tre spari e il rombo di un motore che accelera a vuoto squarciano la quiete di via Marconi, strada provinciale di Barcellona Pozzo di Gotto, a due minuti dal centro storico. Dentro una Renault di colore rosso le forze dell’ordine trovano il corpo senza vita di Beppe Alfano, 48enne cronista locale. È la prima vittima di mafia del 1993, che allunga la catena di morte dell’anno precedente, segnato dalle stragi di Capaci e via DAmelio.
Ventinove anni fa a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, la mafia uccideva Beppe Alfano, corrispondente del quotidiano “La Sicilia” di Catania. Alfano venne assassinato l’8 gennaio del 1993 a soli 47 anni per le sue inchieste giornalistiche su Cosa nostra.
Aveva raccontato la guerra tra cosche nel Messinese, gli affari per i maxi-appalti per i lavori pubblici, gli scandali legati alle frodi di produttori agrumicoli che intascavano illegalmente i fondi europei. L’omicidio Alfano si inserisce nella lunga lista di delitti di mafia avvolti da misteri. Varie sono le trame mai chiarite intorno alla vicenda.
Il 24 dicembre scorso il gip del Tribunale di Messina, Valeria Curatolo, ha archiviato il processo a carico di Stefano Genovese e Basilio Condipodero, che erano accusati di essere gli esecutori materiali dell’omicidio ma contestualmente ha disposto nuove indagini, ritenendo necessario fare alcuni approfondimenti sull’arma del delitto, ritrovata. Uno spiraglio di luce per una possibile verità.
Diversi elementi emersi nel corso delle indagini hanno evidenziato come Beppe Alfano sarebbe riuscito a venire a conoscenza della latitanza del capo mafia Nitto Santapaola nella sua Barcellona Pozzo di Gotto. Ma 28 anni dopo la sua morte, non si sa ancora il preciso movente dell’omicidio né si ha il quadro completo dei mandanti. Gli unici condannati in via definitiva sono il boss barcellonese Giuseppe Gullotti, la cui condanna è ora però in fase di revisione, e Antonino Merlino, ritenuto il killer
Fin dai trascorsi universitari a Messina, alla facoltà di Economia e Commercio, Beppe unisce agli studi due grandi passioni: la politica e il giornalismo. Le sue idee di uomo di destra, fautore inflessibile della legalità e del rispetto per le regole, lo avvicinano inizialmente al movimento estremista Ordine Nuovo e successivamente al Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante. Sul fronte giornalistico, predilige la dimensione investigativa del cronista di strada.
Entrambe le passioni, però, subiscono un brusco arresto, quando, in seguito alla morte del padre, decide di abbandonare gli studi e di trasferirsi in Trentino con la compagna Mimma Barbarò (che poi sposerà). Qui inizia la carriera d’insegnante di educazione tecnica, che prosegue al ritorno in Sicilia, nel 1976, presso una scuola media di Terme Vigliatore.
Siamo alla fine degli anni Settanta e quello che si trova di fronte è un contesto politico locale mutato, che ne delude le aspettative e l’impegno in politica. Il clima che accompagna la sua candidatura alle elezioni comunali, per una lista civica, è pesante e presto si accorge di essere visto come un personaggio scomodo, uno che dà fastidio. La mancata elezione non lo scoraggia e traspone sul piano giornalistico la lotta all’affarismo occulto e alla corruzione, imperanti in quegli anni.
Inizia con alcune radio provinciali per passare negli anni Ottanta a emittenti televisive locali come Telecity e Telenews, collaborando nel contempo al quotidiano catanese La Sicilia, come corrispondente locale di politica, cronaca, sport. In buona sostanza, tutto quello che accade a Barcellona passa attraverso la sua penna e in molti casi si profila per mezzo della propria spiccata “capacità intuitiva”, che lo porta a precorrere eventi e situazioni. Le stesse forze dell’ordine considerano i suoi articoli una valida fonte d’indagine.
Del malaffare strisciante che rende incerti i confini tra mafia, politica ed economia, Beppe dimostra di conoscere molto. Troppo per alcuni personaggi che a un certo punto gli fanno capire che deve fermarsi. Dall’altra parte però c’è un uomo che non si lascia intimidire, tant’è che arriva a rivelare alla moglie e alle due figlie di essere al corrente della sua imminente fine.
Il disegno criminoso si consuma un venerdì notte. Rincasando con la moglie, davanti al portone d’ingresso nota qualcosa di strano e, raccomandando alla donna di chiudersi in casa, si mette alla guida della Renault rossa. Pochi metri dopo, lungo via Marconi, viene freddato da tre colpi di pistola al petto, alla testa e in bocca.
La firma di cosa nostra nelle modalità di esecuzione appare più che evidente. Eppure, grazie a una sotterranea strategia di depistaggio e di diffamazione della vittima, le indagini procedono inizialmente in altre direzioni. Lo stesso iter processuale non riesce a fare totale chiarezza sulla vicenda, fermandosi alla condanna dell’esecutore materiale Antonino Merlino e del mandante Giuseppe Gullotti.
Anni dopo, le rivelazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Avola, legato alla cosca di Nitto Santapaola e implicato nell’omicidio di un altro giornalista, Giuseppe Fava (ucciso nel 1984), offrono un quadro diverso della verità. Secondo quest’ultimo, Alfano sarebbe stato ucciso per aver scoperto il giro di riciclaggio di denaro sporco, che si nascondeva dietro il commercio degli agrumi e al quale erano legati gli interessi del boss Nitto Santapaola e quelli di insospettabili imprenditori legati alla massoneria.
Nel frattempo, seppur con colpevole ritardo, la figura di Beppe Alfano esce dall’anonima dimensione locale e balza all’attenzione dei media nazionali e dell’opinione pubblica. Si scopre che è morto da precario e solo dopo la morte gli viene assegnato il tesserino di giornalista. Per merito della figlia Sonia Alfano, impegnata in politica e nel sociale per i diritti dei familiari delle vittime della mafia, la vicenda giudiziaria sulla morte del padre viene riaperta e nel 2014 offre nuovi scenari con le rivelazioni del pentito Carmelo D’Amico.