“Io credo nel rosa” diceva Audrey Hepburn per affermare la bellezza del romanticismo, della forza nella dolcezza e dell’irriducibile ottimismo. Con una vera professione di fede nella delicatezza, la celebre attrice, trovava nel colore rosa un valido alleato per istituire una cornice narrativa all’interno della quale far muovere i concetti espressi dal pensiero. Credere nel rosa quindi come credere in valori squisitamente femminili. Proprio questo simbolismo, questa sfera di significati associata al colore, ha portato, in tempi più recenti, a “non credere nel rosa. Pochi giorni fa infatti il SAP, uno dei principali sindacati della polizia avrebbe protestato contro le mascherine FFP2 rosa consegnate ad alcune questure, come riporta il quotidiano La Repubblica. Il motivo del reclamo? Sarebbero di un colore che non fa “onore alla divisa“.
Il viaggio del rosa fino al binarismo di genere
Che il rosa sia il colore delle bambine è una convenzione nata in tempi relativamente recenti. A lungo si è infatti trattato di una tinta priva di genere. Sebbene presente nella moda femminile medievale, questo, considerato un rosso sbiadito, non era un colore che andasse di moda. Duccio di Buoninsegna e Cimabue lo utilizzarono spesso per avvolgere il Bambino, secondo la simbologia che lo voleva associato al corpo di Cristo. Durante il Rinascimento prese posto nella tavolozza di molti pittori, grazie alla legittimazione ottenuta nel “Libro dell’Arte“, in cui Cennino Cennini lo riporta come un composto di sinopia e bianco San Giovanni per “dipingere volti, mani e nudi sui muri”.
Più avanti nel tempo, tra Sei e Settecento, furono moltissime le donne a indossare il rosa. Sappiamo che Madame de Pompadour, l’amante di re Lugi XV di Francia, lo indossava spesso, in combinazione con il blu pallido. Maria Antonietta invece lanciò una vera e propria moda indossando il color “pulce”, una tonalità tra rosa, marrone e grigio. Degna di nota anche la valenza seducente conferita alle donne rappresentate da pittori come George Romney e Jean Honoré Fragonard.
Verso un primo binarismo: il Diciannovesimo secolo
Ancora nel Diciannovesimo secolo, vedere un bambino indossare il rosa era piuttosto consueto. In “Piccole donne crescono” di Louisa May Alcott, pubblicato nel 1869, Amy identifica i figli di Meg con un fiocco rosa per la bambina e blu per il bambino. L’usanza però viene subito identificata come un vezzo proprio della moda francese, Ventiquattro anni dopo, un articolo sugli indumenti apparso sul New York Times indicava di mettere sempre “il rosa al bambino e il blu alla bambina”. Le origini della pratica sono piuttosto chiare: come si è detto prima, questo è un rosso sbiadito. Quest’ultimo colore, dal Medioevo proprio di clero e nobiltà, riportava a un potere di appannaggio maschile. Il blu d’altra parte era il colore del velo della Madonna, quindi della maternità e della tenerezza per eccellenza
Ancora nel 1918 Earnshaw’s Infants’ Department, rivista specializzata, spiegava che il rosa è un colore più deciso, mentre il blu più delicato e grazioso. Già solo che ci fosse una divisione nell’abbigliamento dei bambini poteva considerarsi insolito: prima dell’invenzione delle tinture chimiche, i vestiti sbiadivano in fretta. La gran parte della popolazione eliminò il problema alla radice facendo indossare ai propri figli abiti bianchi.
Rosa non si nasce, si diventa
Il colore diventa indicativo della femminilità molto tardi, dunque. Negli anni Trenta e Quaranta, gli uomini iniziarono a indossare vestiti sempre più scuri, percepiti come legati al mondo degli affari, lasciando le tinte più chiare alle donne. Il messaggio era chiaro, la divisione sempre la stessa: alle donne non rimanevano che tinte tenui, associate alla delicatezza e alla mansuetudine. Vittime di questa divisione, i bambini videro comparire nel proprio corredo sempre più capi dei colori rispondenti al loro sesso biologico. Il rosa era ormai quasi al termine del suo cammino come colore opposto a valori machisti quando, con la Seconda Guerra Mondiale, i nazisti contrassegnarono con un triangolo rosa gli omosessuali detenuti nei campi di concentramento.
Nei Cinquanta il rosa arriva alla più completa affermazione di sé. Delicato e femminile, è il colore delle donne, del cosiddetto “sesso debole”. Il femminismo dei decenni successivi mette in discussione il risultato di questo percorso secolare, provando a criticare il valore del rosa. Ma i frame mentali non sono facili a cancellarsi ed ecco che il rosa torna prepotentemente a invadere interi scaffali dei reparti femminili. Nella lotta tra la percezione comune e la razionalità, la prima ha la meglio.
E oggi? La vicenda delle “indecorose” FFP2 la dice lunga
“Crea una parvenza di minore autorevolezza”, “è eccentrico”, “non fa onore alla divisa”. Molto si è detto sui motivi per cui il carico di FFP2 rosa consegnate ad alcune questure di polizia è stato mandato indietro. Il SAP, facendo le sue rimostranze, ha ricordato che la polizia ha bisogno di autorevolezza, specie ora che c’è una pandemia in corso. Che sia stata una scelta obbligata per l’eccentricità del colore o meno, il punto è proprio questo: “c’è una pandemia in corso”. Un’istituzione ancora troppo declinata al maschile trova indecoroso il colore di un carico di uno degli strumenti di prevenzione del virus. Ma nella lotta al Covid, nel 2022, c’è spazio per queste rimostranze?
Sara Rossi