Senzatetto, mendicante, barbone, accattone, clochard, homeless. Per quanto si cerchi di attenuare la portata negativa del concetto con l’uso di qualche parola straniera, nella percezione comune i poveri che vivono in strada generano un mix di sensazioni che spazia dal disgusto al timore. Le città e i suoi abitanti, dove si concentrano in misura maggiore i senzatetto, hanno deciso che non li vogliono.

Puzzano, sporcano, portano degrado e aumentano la percezione di insicurezza, chiedono l’elemosina davanti a tutti nei centri cittadini e nelle vie dello shopping, vanno a dormire negli edifici abbandonati da anni in condizioni precarie, rovistano nella spazzatura, sono una minaccia al decoro urbano. Da persone che hanno la sola colpa di essere nate (o diventate) povere, di colpo i senzatetto si sono trovati ad essere i principali nemici delle nostre città.

Negli ultimi quindici anni si è assistito ad una forte offensiva su due fronti contemporaneamente contro i senzatetto: da una parte l’offensiva “culturale”, condotta dalle pagine della stampa locale da nord a sud dell’Italia (ma con particolare concentrazione al nord) con vari articoli che dipingono i senzatetto alla stregua quasi di criminali di strada. Dall’altra, si è avuta una evoluzione in senso legislativo sull’approccio al fenomeno della povertà, nella direzione di interventi prettamente repressivi che non riescono minimamente ad incidere sulle radici del fenomeno, bensì lo spostano semplicemente da un quartiere all’altro, da una città all’altra.

Partendo dal principio, si può individuare come punto d’inizio di questa offensiva legislativa la concessione di maggiori poteri agli enti locali con il decreto legge 92/2008, il quale dava la possibilità di “legiferare” attraverso lo strumento delle ordinanze contingibili e urgenti su questioni riguardanti la sicurezza, il decoro, la viabilità e il danneggiamento di beni pubblici. E’ proprio grazie a questo primo decreto che nasce la figura del “sindaco-sceriffo”, creatura mitologica della politica locale italiana, fustigatore implacabile dell’illegalità e difensore del decoro e della quiete pubblica della sua città.

Peccato però che, in nome della sicurezza e del decoro, i sindaci-sceriffi si siano scagliati prevalentemente contro i soggetti deboli delle proprie città: gli stranieri e i senzatetto, per l’appunto. In particolare, con la scusa del decoro (assurto a supremo bene da tutelare), si è spesso ampliata la sua definizione sovrapponendola in maniera capziosa alla tutela e alla valorizzazione dei centri storici e dei beni culturali. E’ in nome del decoro cittadino che sono comparse le panchine con i braccioli separatori, fatte in modo che non ci si possa sdraiare; è in nome del decoro che viene autorizzata la chiusura con cancelli dei porticati  dei condomini sotto i quali dormono i senzatetto; ed è sempre in nome del decoro che si sono materializzati delle punte metalliche su gradini e  rientranze più larghe degli edifici, in modo da impedire di sedersi e bivaccare. E’ l’architettura ostile a farla da padrone, creata appositamente per respingere gli indesiderati (i senzatetto, appunto)

Nonostante numerose volte sia intervenuta la Corte Costituzionale contro alcuni articoli della legge 125/2008 (legge di conversione del decreto 92/2008 succitato), la quale in varie sentenze  ha stigmatizzato che la legge è stata usata in diversi casi per discriminare le persone in base al proprio status (età, sesso, condizione sociale) o alla propria etnia o paese di provenienza, la guerra contro i più poveri tra i poveri non si è fermata. 

Nel 2017 viene approvato il decreto 14/2017 (cd. “Minniti”) sulla sicurezza nelle città. Nella genesi del decreto e nella sua successiva discussione si è posto l’accento non solo sull’effettivo livello di sicurezza dei luoghi, misurati attraverso i dati e le statistiche sui reati, bensì anche su quei fattori che causerebbero una percezione di insicurezza (tra i quali, per l’appunto, rientra anche il decoro). Per porre quindi un freno alle condotte generatrici di insicurezza nella cittadinanza, all’articolo 9 il decreto introduce la possibilità di sanzionare con un ordine di allontanamento (quello che viene chiamato in maniera spicciola “Daspo urbano”) non solo chi  stazionando  impedisce la “libera fruizione” di stazioni ferroviarie, porti, aeroporti e fermate del trasporto pubblico, ma anche chi lo fa in aree ove siano presenti ospedali, musei, monumenti, aree destinate al mercato o a spettacoli, parchi e giardini e, più in generale, aree “interessate da consistenti flussi turistici”, da individuare nel regolamento di polizia urbana del singolo comune (Art. 9, comma 3).

Ora, appare lampante come venga lasciata alle singole amministrazioni locali la più ampia facoltà di stabilire cosa nel concreto impedisca la libera fruizione da parte degli utenti delle aree suindicate. Dando una scorsa a vari regolamenti di polizia urbana, ricorrono praticamente le medesime violazioni: divieto di chiedere la questua, che non colpisce solo quelli che sfruttano minori o disabili, ma indiscriminatamente qualsiasi senzatetto che tenda la mano per chiedere qualche spicciolo stando seduto in terra; il divieto di bivaccare, inteso come lo sdraiarsi su un gradino o una panchina o sotto un riparo di fortuna per sfuggire alla pioggia o al caldo d’estate; il divieto di consumare alcolici in determinati luoghi come giardinetti e parchi pubblici. E l’elenco potrebbe andare avanti a lungo.

Chi venga colto ad infrangere questi divieti, oltre alla sanzione pecuniaria riceve anche un ordine di allontanamento dal luogo in cui è stata commessa la violazione (il Daspo di cui si diceva), valido per quarantotto ore. L’ordine di allontanamento dovrà poi essere trasmesso al Questore, il quale dovrà valutare la situazione ed eventualmente emettere il provvedimento vero e proprio con cui intimare al trasgressore di non accedere al luogo indicato per un periodo di tempo fino a dodici mesi. Qualora venisse violato anche questo nuovo divieto, è prevista la pena dell’arresto fino ad un anno.

Se la teoria appare piuttosto chiara, vi è poi la realtà con cui questa teoria va a scontrarsi. L’Anci ha effettuato uno studio a due anni dall’introduzione della misura: su 4300 “Daspi urbani” emessi nei capoluoghi di provincia e nei comuni con più di cinquantamila abitanti, solo cento  sono diventati poi provvedimenti di allontanamento veri e propri. Una percentuale alquanto piccola, considerata l’enfasi con cui l’introduzione di queste modifiche normative era stata accolta. Questo però è un dato che viene spesso tralasciato dalla stampa locale.

Nell’occasionale bilancio di fine anno dell’operato dei corpi di polizia locale, che si occupano anche della sicurezza urbana e dell’applicazione del regolamento di polizia urbana cittadino, vengono presentati generalmente solo i numeri degli ordini di allontanamento emessi (e non di quelli che poi vengono effettivamente seguiti da un provvedimento del Questore), fornendo alla cittadinanza dati parziali e incompleti. Né il Sindaco (o l’Assessore alla sicurezza, figura ormai presente in tutti i comuni medio grandi) specifica che è estremamente difficile che un senzatetto paghi la sanzione comminatagli perché dormiva su di una panchina, o che degli ordini di allontanamento emessi solo una infinitesima parte porterà ad un qualche tipo di provvedimento. Ed è estremamente improbabile che la stampa locale sollevi il problema. L’importante è avere dei numeri da dare ai lettori, per dimostrare che l’amministrazione non si ferma mai e combatte il cattivo senzatetto implacabilmente.

Lo stesso problema di efficacia dei provvedimenti emessi dalle varie amministrazioni comunali e della loro comunicazione trasparente avviene quando si affronta il problema degli sgomberi. Tolte le operazioni più eclatanti (per numero delle persone interessate dall’intervento o per eventuali disordini che succedano in corso d’opera, come nel caso di Milano a ridosso delle festività natalizie), gli sgomberi di edifici cadenti e abbandonati che costellano il territorio dei comuni italiani dai senzatetto sono diventati una pratica pressoché quotidiana. Gli sgomberi, in virtù del reato di invasione di edificio, art. 633 codice penale (inasprito dal decreto sicurezza di Salvini nel 2018), sono un altro tassello nella lotta contro i senzatetto che si consuma nei comuni. Infatti, grazie alle modifiche apportate nel tempo, è possibile procedere d’ufficio (quindi senza che venga presentata una denuncia da parte del proprietario dell’immobile) quando il fatto è commesso da almeno cinque persone. Una volta effettuato lo sgombero, però, rimangono comunque delle persone che non scompariranno nel nulla, ma si troveranno indagate e potenzialmente processate per aver dormito in un edificio cadente, il tutto senza che la loro situazione di povertà estrema sia stata risolta.

Ma se da un lato la parte repressiva galoppa a pieno regime, la parte sulla prevenzione ed il superamento delle situazioni di marginalità fatica a mettersi in moto. I servizi sociali non sempre sono in grado di intervenire (mancanza di personale, di fondi o di volontà politica), e i dormitori messi a disposizione dai comuni o dalle organizzazioni benefiche laiche e religiose non riescono a coprire tutta la necessità di posti letto per affrontare soprattutto la stagione invernale. Gli investimenti degli enti locali in questo settore sono estremamente ridotti, e così si arriva ad avere almeno cinquantamila persone senza fissa dimora in Italia (dati Istat) letteralmente abbandonate a se stesse. I senzatetto sopravvivono grazie alle associazioni di volontariato, che distribuiscono pasti e coperte e cercano di tappare le falle nell’assistenza che dovrebbe essere garantita dagli enti locali, non fosse altro perché si tratta di esseri umani in difficoltà.

Ma la direzione presa sembra ormai tracciata: non si riesce ad incidere sulle cause della povertà e, contemporaneamente, non si riescono a garantire condizioni di vita quantomeno umane ai senzatetto, pertanto li si colpisce con vari provvedimenti repressivi cercando di spingerli a cambiare città. Architettura ostile, Daspo urbano, sgombero. E la domenica, tutti a messa.