Chi almeno una volta non ha immaginato come sarà la fine della pandemia e il ritorno alla normalità? Persi dietro ai più vari e determinati “farò”, chi non ha pensato a un nuovo inizio, un nuovo sé con cui dire addio al Coronavirus? Un bel sogno a occhi aperti, un motivo per spingerci a migliorarci, a vivere la nostra vita, nel timore di un domani incerto. Uno scenario cui aspirare, da accogliere con tutta quella vitalità di cui a lungo ci siamo sentiti privi. O forse no.
Impossibile negarlo: il Covid ha cambiato ognuno di noi
Nella variegata bellezza dell’esistenza, allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 2019, ognuno ha di certo pensato a qualcosa da realizzare nei mesi successivi. Si tratta dei famosi “propositi per il nuovo anno“, diversi a seconda di chi se li propone. Nello stesso momento in cui si pensa loro, si decide già cosa sia più o meno alla portata, cosa sia davvero realizzabile secondo le proprie possibilità. C’è chi promette di mettersi in forma sapendo che non alzerà mai un dito, figuriamoci dei pesi; chi sceglie di iniziare un master, perché d’altronde è quello che vuole fare da sempre, e così via. Idee, prospettive, speranze, vagheggiamenti che compongono il futuro noi che speriamo brinderà alla fine dell’anno a venire.
L’inaspettato però è sempre in agguato e chi stila la lista dei buoni propositi per il nuovo anno lo sa. Può capitare: uno slancio di energia che porta a consumare le scarpe da ginnastica, un lavoro da preferire al master e chissà che altro. Nessuno di certo, alla mezzanotte del 31 dicembre 2019 avrebbe pensato davvero a una pandemia. Eppure…
Così, col passare del tempo, abbiamo provato ad adeguarci a questa nuova normalità, alle mascherine nelle quali respirare, al salutare gli amici a distanza, affidando agli occhi il duro compito di trasmettere il calore e l’affetto in quella che è sempre stata la lingua degli abbracci. Intanto non abbiamo smesso di sognare. Abbiamo risposto con la speranza ai bollettini giornalieri da accogliere in rispettoso silenzio, ai viaggi cancellati, ai concerti annullati. Abbiamo ripreso in mano quella lista dei buoni propositi di fine anno lasciata a metà, come da chi abbia avuto un impegno troppo urgente per terminare di scriverla, e ne abbiamo sostituito il titolo. In stampatello maiuscolo: propositi per la fine della pandemia.
“Non appena tutto questo finirà…”
Durante il lockdown ci siamo reinventati. Non ne saremo usciti migliori, come tanto si pronosticava, ma ne stiamo uscendo diversi. Ciascuno a modo suo. Ora che una luce in fondo al tunnel sembra vedersi, che la fine della pandemia non è più il miraggio cui avevamo quasi smesso di credere, ma una possibilità, riprendere in mano quella lista dei propositi dà la stessa sensazione di incontrare un vecchio amico con cui si ha un conto in sospeso.
In tutto il mondo si allentano le restrizioni e noi dobbiamo fare i conti con le promesse che ci siamo fatti. Dovremmo essere pronti ed entusiasti, eppure svegliarsi dal dondolio cullante della comfort zone che ci siamo creati, del vortice di apatia e di “confortevole intorpidimento” della pandemic fatigue è più difficile di quanto pensassimo. Tornare a camminare per il mondo, dopo che noi, animali sociali, ci siamo allontanati gli uni dagli altri per così tanto tempo, sembra una sfida, come lo era rimanere lontani. Da marzo 2020 in moltissimi hanno sviluppato la cosiddetta “sindrome della capanna“, un tipo di claustrofilia per cui lasciare casa rende ansiosi, mette a disagio. Le mura della nostra abitazione erano ciò che ci proteggeva dal contagio, ma rischiano di divenire anche una pericolosa prigione per la nostra mente, prima che per il nostro corpo.
Chi non ha paura della fine della pandemia?
Non solo un malessere con noi stessi. Anche la palpebra che viene appena sollevata per sbirciare il mondo esterno dopo aver tenuto gli occhi chiusi può fare paura. Così le decisioni del governo di togliere la mascherina all’aperto e di riaprire le discoteche si traducono in paura di tornare a rischiare. Il nostro amico decide di andare a fare serata e noi disapproviamo. Non siamo noiosi o bacchettoni: è solo il meccanismo di protezione che abbiamo scelto per difenderci dal contagio. Dopo che per anni l’altro ci è apparso come colui da cui tenere le distanze, una nuova normalità fatta di ritorno alle abitudini, di feste con gli amici, di viali affollati per i mercatini di Natale, di abbracci per la vittoria di una partita di calcio fa paura. È il cambiamento, e questo fa paura a tutti. Che male c’è ad ammetterlo?
La normalità è qualcosa che si costruisce giorno dopo giorno, insieme. Se si ha paura, basta fare la cosa più naturale: darsi la mano. Ascoltandosi e comprendendosi a vicenda, senza giudicarsi o forzare i tempi. Forse è questo che serve davvero per uscirne. E perché no? Magari davvero migliori.