«Per molto tempo ci siamo abituati a uno stage non retribuito, ma questo deve cambiare. Non possiamo più permettere che i giovani vengano sfruttati così» lo aveva detto David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, e avrei voluto credere che in sua memoria e onore il cambiamento abbia innescato la rivoluzione. Ma non è così.  377 voti contrari, 293 favorevoli, 26 astenuti e quello stesso Parlamento ha respinto una nuova occasione non soltanto per regolamentare gli apprendistati, ma per creare il futuro dei giovani. Ironico che accada proprio quest’anno, mentre l’Europa sembra dirigere le sue priorità verso le nuove generazioni. È stato bocciato l’emendamento che vieta uno stage non retributivo, difendendo anche questa volta i potenti a danno non dei più giovani. Compromettere il futuro degli stagisti è minare al futuro stesso del paese, ma mettere lo sgambetto alla nuova generazione è il prezzo per mantenere quella attuale? 

Mentre in piazza giovani studenti sfilano per difendere i loro diritti nella protesta per l’alternanza scuola-lavoro, il testo approvato dal Pe si limitava solamente a chiedere di combattere la pratica dei tirocini non retribuiti. Che cosa, invece, hanno bocciato? La richiesta di metterli fuori legge. Al bando c’è lo sfruttamento dei giovani come violazione dei loro diritti? C’è chi, tentando di difendersi, ha detto che “non serve aggiungere altro”. Sembrerebbe che la politica stia preferendo la retorica della sovranità nazionale per legittimare l’esito, mentre la Corte dei conti europei disegna la condizione italiana a debito di ogni stage non retribuito, specchio di una scarsa efficacia nell’uso dei fondieuropei destinati ai giovani. La barca è larga, perché a soffrirne non sono solo gli italiani ma sono tutti i giovani. “Rafforzare il ruolo dei giovani europei: occupazione e ripresa sociale dopo la pandemia” ma soprattutto contro uno sfruttamento e per la difesa di ogni diritto. 

Stage non retribuito: il futuro a massimo ribasso

I giovani lavoratori accettano uno stage non retribuito perché il sistema lo prevede, ma a quale prezzo? E quali sono le condizioni? Nella sottile linea tra la gavetta e lo sfruttamento, una pratica con cui ci hanno cresciuto: e ci hanno fatto credere sia la stessa. Andare avanti per anni, “in un susseguirsi interminabile di tirocini e sfruttati come manodopera a basso costo o addirittura gratuita”. Alla base della condizione “giovani e lavoro” c’è una frustrazione storica figlia degli anni Novanta. Il motore finanziario non ha puntato a migliorare la condizione di lavoro ma a far resistere le aziende nel mercato. Questo ha innescato un’esigenza inevitabile: tenere basso il costo del lavoro e lo sfruttamento.  Per la resistenza delle aziende abbiamo sacrificato le dinamiche di un lavoro che, sotto ogni aspetto, determinava la crescita. Allo sviluppo del settore produttivo abbiamo preferito il disimpegno verso i dipendenti. Come dicono, d’altronde: quello che conta è il risultato? Eppure, a queste condizioni, per le nuove generazioni il risultato è un futuro a massimo ribasso. La selezione del personale non ha più la misura della competenza ma quella della convenienza sulla base della disponibilità (propria dei giovani agli esordi) di accettare retribuzioni minime. E nel peggiore dei casi, come lo stage non retribuito, proseguire un percorso a tutti gli effetti professionale senza alcun tipo di stipendio. Da un lato il compromesso tra giovani e lavoro come frutto di un sistema interrotto, dall’altro il peggioramento della qualità stessa del lavoro sulla base della competitività aziendale. Qual è il prezzo da (non) pagare?