Un gomitolo. Se si dovesse descrivere il concetto di “moda” con un oggetto, forse sarebbe questo. Un filo che si annoda su sé stesso, che si aggroviglia e torna indietro ma che non si perde. Per capire la società basta cercare ciò che fa tendenza. Specchio dei cambiamenti, delle suggestioni e dei desideri del mondo, l’abbigliamento veicola un messaggio che chiunque può recepire a colpo d’occhio. E permette di tradurre in colori e forme ciò che si sente dentro e che a volte non si riesce a dire in altro modo.
Da prigione a palcoscenico: l’evoluzione della moda femminile segue l’emancipazione
Per secoli alle donne è capitato di sentirsi oppresse nei propri abiti. Stretti e scomodi, limitavano i movimenti ed erano spesso causa di dolore fisico. Basti pensare al bustino, simbolo di un adeguamento al desiderio maschile. La sua funzione primaria era infatti quella di accentuare l’incavo della vita e rialzare il seno. Ma, come si è detto, la moda cambia e ora quello stesso capo è tornato, svuotato della sua portata simbolica. Non può simbolo di repressione della libertà femminile, ma simbolo dell’esatto opposto. La domanda sorge spontanea: come siamo giunti fin qui? Passando per il momento in cui le donne hanno iniziato a sentirsi oppresse nei propri abiti anche a livello morale.
Con la progressiva crescita di consapevolezza delle donne, si abbandonano gli abiti più elaborati e meno pratici. Gonne più corte e addirittura pantaloni, niente più bustini. “Fino a quel momento avevamo vestito donne inutili, oziose, donne a cui le cameriere dovevano infilare le maniche; invece, avevo ormai una clientela di donne attive; una donna attiva ha bisogno di sentirsi a suo agio nel proprio vestito. Bisogna potersi rimboccare le maniche“. Così l’immensa Coco Chanel commentava la rivoluzione in atto. Dopo i lei niente nella moda sarebbe stato più lo stesso. E così il modo delle donne di percepire il vestire. E sé stesse.
La moda però non ha finito il suo discorso né, a ben guardare, non potrà mai farlo. Lasciare la parola alle donne, dopo secoli, è ancora difficile. Si passa per l’uso propagandistico del vestiario durante il Ventennio e per l’ipersessualizzazione delle pin up degli anni Cinquanta prima di arrivare alla minigonna.
I costumi di oggi riflettono la percezione di sé
Donne sempre più libere di esprimersi, sempre più emancipate, sempre più coscienti di sé stesse e della possibilità di esserlo. Queste le premesse richieste da tutti quei vestiti che fanno storcere il naso alle nostre nonne ma che oggi indossiamo senza problemi La sopracitata mini, i crop top o i completi maschili. Non c’è limite a ciò che si può indossare, finché ci lasciano esprimere chi siamo. La GenZ è la prima generazione fluida della storia e la moda lo sta riflettendo. Sono sempre più presenti capi genderless, non distinti secondo la divisione binaria uomo-donna. E no, indossarli non pregiudica l’appartenenza di genere.
“Body confident” non è solo un neologismo con cui dare sfoggio della propria cultura sulle tendenze attuali ma un vero e proprio modo di essere. Alle donne di oggi non serve costringersi in abiti strettissimi per soddisfare il desiderio maschile, perché nessun desiderio è più importante del proprio. Gli abiti possono e devono riflettere questa consapevolezza: ciò che più importa è sentirsi a proprio agio, sempre. Questo non significa firmare la condanna a morte della femminilità. Semmai dovessimo trovarne una, sarebbe ben più irreparabile questa calata dall’ascia impietosa dell’ipersessualizzazione a tutti i costi del corpo della donna. La regola oggi è una sola e ricalca proprio quella di Coco Chanel: che non ci si senta più strette. A prescindere da cosa provi a intrappolarci.
Sara Rossi