“Approfitta di questa fantastica offerta: 5 magliette a tre euro!”. Un vero affare, non c’è dubbio, ma per chi? Dietro gli intricati fili delle famose 5 magliette a tre euro e dell’industria della moda si nascondono interi eserciti di lavoratori e lavoratrici. Che vedono sempre più messi in dubbio i propri diritti, capo dopo capo. Ammesso che questi stessi diritti esistano. Sono ingranaggi che si muovono da lontano, a ritmi estenuanti. Dunque, di cosa parliamo quando parliamo di moda? Non certo per ogni caso, ma con frequenza via via crescente parliamo di sfruttamento del lavoro.

Sfruttamento: il vero costo della moda

Secondo la lista Miliardari di Forbes, nel 2016 le 5 aziende di moda più grandi del mondo hanno fruttato ai proprietari un totale di 6.9 milioni di dollari. Un terzo di questa somma sarebbe abbastanza per garantire uno stipendio equo a tutti i lavoratori vietnamiti impiegati per produrre capi di abbigliamento. Il Vietnam è infatti proprio uno dei paesi dove il costo del lavoro è basso, al punto che molte grandi firme vi fanno confezionare i propri abiti. Con sei giorni a settimana di lavoro, gli operai vengono spesso meno di 1 dollaro l’ora, accumulando in tutta la propria vita un guadagno pari a quello capitalizzato da un amministratore delegato di qualsiasi tra le 5 aziende leader nel settore in soli 11 giorni.

Una volta ho visto il cartellino del prezzo di una camicia, era circa 104$. Una catena di produzione ha bisogno di 40 persone per produrne una. In un giorno, io ne faccio 200.

Phu, intervistata da Oxfam

A parlare è Phu, che produce capi esportati in tutta l’Asia e il cui salario si aggira intorno ai 6 dollari al giorno. La sua storia non è un’eccezione. Anzi.

Iqbal Masih: simbolo di un problema ancora attuale

Non solo il Vietnam. Iqbal Masih è stato un bambino pakistano, divenuto simbolo della lotta contro lo sfruttamento minorile. Iniziò a lavorare a quattro anni e a cinque venne venduto dal padre per pagare un debito di 12 dollari. Morto in circostanze poco chiare, ha dato battaglia a quello stesso lavoro da cui è stato sfruttato e spesso picchiato. Secondo l’ILO, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, sono 160 milioni i bambini coinvolti nel fenomeno del lavoro minorile e altri 9 milioni sono messi a rischio dalla pandemia.

Dati come questi sono allarmanti e farebbero accapponare la pelle anche al più incallito shopaholic. Eppure basta aprire Instagram per notare l’altrettanto allarmante numero dell’hashtag #sheinhaul: 456mila pubblicazioni. Video in cui quanto ordinato dal popolare negozio di fast fashion Shein (ma potrebbe benissimo trattarsi di un altro) viene mostrato direttamente estraendolo dalle shopping bag. Ignorando gli oltre 200 lavoratori stipati in locali senza uscita per 12 ore al giorno di cui ha rivendicato l’esistenza un’inchiesta del 2021 dell’organizzazione indipendente Public Eye.

“Chi ha fatto i miei vestiti?”: Fashion Revolution contro lo sfruttamento

Attivo in 100 Paesi, Fashion Revolution è un movimento no-profit globale nato in seguito alla tragedia del Rana Plaza in Bangladesh, una fabbrica il cui crollo ha provocato la morte di oltre 1180 lavoratori. Ciò che chiede una maggiore attenzione da parte di consumatori e produttori sui capi d’abbigliamento, considerando anche variabili ambientali ed economiche. Portavoce di moltissime campagne contro lo sfruttamento, chiedendo di riorganizzare il sistema della moda e organizzando campagne con attivisti in tutto il mondo.

Fermare lo sfruttamento del lavoro, dopo le cifre riportate, può sembrare utopico. Che ognuno nel proprio piccolo possa impegnarsi per finanziare chi invece rispetta i propri lavoratori però non lo è. E richiede poco, pochissimo sforzo: basta fermarsi a pensare prima di riempire il carrello.

Sara Rossi