Sono passati esattamente 50 anni dallo scandalo che ha segnato le menti di intere generazioni di cittadini americani. Evento tanto profondo e divisivo da scrivere la storia del giornalismo e della politica in un colpo solo, scardinando i vertici di un partito corrotto e rivelandone le contraddizioni. Watergate, 50 anni dopo un conflitto tra Davide e Golia: da una parte Bob Woodward e Carl Bernstein, giornalisti del Washington Post; dall’altra l’intero entourage del presidente Nixon. Un capolavoro del giornalismo d’inchiesta e una rivelazione scomoda. Dopo mezzo secolo di studi, inchieste, interviste e ricostruzioni, ricordare il Watergate vuol dire ricordare la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova stagione del dibattito pubblico e del giornalismo.

Due hippie, un’intercettazione, un’irruzione, un assegno: la ricetta che ha svelato il progetto di Nixon

Il 17 giugno 1972, almeno fino al crepuscolo, Richard Nixon era ancora uno dei più apprezzati presidenti degli Stati Uniti. Con un progressivo ritiro delle truppe stanziate in Vietnam, guerra controversa e sanguinosa, e con la sua campagna di avvicinamento diplomatico alla Cina maoista, aveva conquistato frange elettorali moderate che non avevano mai votato repubblicano. Ma le cose erano destinate a cambiare quella notte. Eletto nel 1969, sebbene temuto dalla componente democratica per le dure repressioni contro il movimento studentesco, il suo indice di gradimento era in vertiginosa ascesa.

Ma Nixon temeva che i democratici avrebbero trovato una strategia che lo avrebbe messo alle corde. Fu così che, durante una convention democratica tenuta nel prestigioso Hotel Watergate, incaricò cinque uomini di disporre, con attenzione meticolosa, delle microspie. “Conosci il tuo nemico”, insomma, ma con lo spionaggio. Fu per puro caso che Frank Willis, guardia di sicurezza dell’albergo, notò un pezzo di nastro adesivo sospetto, posto al bordo di una porta per mantenerla socchiusa. Questo dettaglio lo insospettì, soprattutto dopo aver notato che il nastro, una volta rimosso, venne riposizionato una seconda volta. Se la prima volta è curiosità, la seconda è sospetto: Willis chiamò la polizia. Le forze dell’ordine irruppero nell’Hotel e trovarono i cinque infiltrati. Ma siamo solo all’inizio.

Quegli uomini potevano essere semplici sabotatori, senza chiare dipendenze politiche: investigatori privati, magari, colti sul fatto per puro caso. Senza correlazione evidente con il partito repubblicano, il caso uscì nella cronaca senza suscitare alcuno scalpore. Ma un sottile filo rosso, quasi invisibile, è colto da due giornalisti che la redazione stessa in cui lavoravano non aveva mai ritenuto davvero validi: Woodward e Bernestein, un praticante assunto da poco e un reporter-hippie. Quel filo rosso è una scia di denaro: 25 mila dollari di assegno, versato dal Comitato di Nixon a uno dei cinque uomini. Ora la correlazione non è solo sospetta, ma decisamente incriminante.

“Seguite il denaro”: come un informatore anonimo portò all’impeachment, la storia di “Gola Profonda” e il senso di tutto a 50 anni dal Watergate

Fortuna, forse, fiuto giornalistico, indubbiamente. Ma dietro la scrittura dell’inchiesta e l’intuizione fondamentale dietro di essa ci fu la mano, o meglio, la voce, di un informatore segreto. Si faceva chiamare Gola Profonda, Deep Throat. Sebbene sembri (e sia effettivamente!) un elemento degno di un romanzo di spionaggio, le sue criptiche soffiate sono diventate leggendarie: “seguite il denaro”. E quel denaro sporco fu la chiave per comprendere la macchinazione nixoniana che avrebbe portato ad un vantaggio sleale e illecito: la conoscenza della strategia degli avversari democratici.

Paradossalmente, l’inchiesta a puntate del duo del Washington Post non sembrò, dopo i primi mesi di scalpore, portare a un rovesciamento clamoroso della fortuna politica del presidente. Nixon venne riconfermato ai midterms del novembre 1972 con un inaspettato 60% delle preferenze. Ma non poteva finire così. L’otto gennaio 1973 iniziò il processo che condurrà, l’anno seguente, all’impeachment di uno dei più popolari presidenti statunitensi: aver posto un termine alla guerra in Vietnam non lo salvò dall’appellativo di “imbroglione”. Le sue accuse: “ostruzione della giustizia, abuso di potere, oltraggio al congresso“. La sua parabola era finita grazie a un hippy e un giornalista praticante. Ricordare il Watergate 50 anni dopo, una delle più grandi inchieste del Novecento, vuol dire comprendere che il giornalismo è, e rimarrà, lo scudo più forte della democrazia.

Alberto Alessi